Se la pensione resta un miraggio

La Legge di Bilancio 2024 ha reso ancora più rigidi i criteri per andare in pensione, mentre la stragrande maggioranza degli italiani – seppur consapevole del bisogno – non aderisce ad alcuna forma di previdenza complementare. Servono più informazione e un cambio di mentalità.

Valerio Baselli 08/02/2024 | 09:41
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Pensione

I nostri genitori – per i più giovani, i nonni – non hanno mai avuto, se non in casi eccezionali, bisogno di investire privatamente per la propria pensione. Nella maggior parte dei casi, ne hanno avuto accesso a un’età relativamente bassa e con un assegno in media vicino all’80% del loro ultimo stipendio da lavoratori.

Condizioni, queste, impensabili per chi lavora attualmente, soprattutto per coloro che hanno meno di 45 anni. L’equilibrio finanziario della previdenza pubblica italiana è talmente delicato che il pacchetto di misure dedicato alle pensioni contenuto nella Legge di Bilancio 2024 del governo Meloni, per la prima volta dalla Riforma Monti-Fornero del 2011, ha modificato le regole non solo per chi è vicino all’età pensionabile (Quota 103 e Opzione Donna), ma anche per coloro che hanno iniziato a lavorare a partire dal 1996 e che rientrano nel sistema di calcolo contributivo. Una cosa sorprendente, visto che il contributivo dovrebbe essere in grado di garantire la sostenibilità finanziaria a prescindere dall'età di uscita.

“Per questi lavoratori ‘giovani’ si allontana la possibilità di pensione anticipata tre anni prima del requisito di vecchiaia (oggi pari a 67 anni): il valore della pensione dovrà infatti essere pari ad almeno 1.320 euro netti al mese (3 volte l’assegno sociale, prima era 2,8)”, si legge nell’ultimo Osservatorio Pensioni a cura della società di consulenza Moneyfarm. “Tale soglia scende leggermente per le lavoratrici con un figlio (2,8 volte) e con due o più figli (2,6 volte)”.

Aumentano gli anni di contribuzione, scende l’ammontare dell’assegno

Secondo un calcolo che abbiamo effettuato in data 7 febbraio 2024 tramite il simulatore Pensami dell’Inps, un lavoratore dipendente nato nel 1990 e che ha cominciato a lavorare nel 2015 potrà accedere alla pensione di vecchiaia nel 2060, quindi a 70 anni di età.   

Lo strumento non dà stime sull’ammontare dell’assegno Inps, in compenso numerosi studi hanno già allertato sul crollo previsto riguardo al tasso di sostituzione (cioè il rapporto definito in termini percentuali tra la prima rendita pensionistica e l’ultimo reddito di un lavoratore). Secondo un’analisi della stessa Ragioneria dello Stato, nel 2060, questo sarà pari al 64% per i lavoratori dipendenti e al 51% per i lavoratori autonomi (con 38 anni di contributi).

Insomma, per chi volesse mantenere lo stesso stile di vita una volta chiusa la carriera lavorativa, sembra impensabile poter contare solo sulla previdenza obbligatoria. Perciò, è fondamentale un cambio di mentalità, soprattutto tra i più giovani.

Nei Paesi europei, da sempre abituati alla “mamma Stato”, non è così facile. Secondo l’Osservatorio di Moneyfarm, a oggi solo 26 italiani su 100 stanno attivamente mettendo da parte dei risparmi in strumenti di previdenza complementare e nel periodo 2007-2022 solo il 22% del TFR è stato destinato a questo tipo di strumenti. Tra l’altro, a fine 2022, si registrano quasi 2,5 milioni di “silenti”, ossia persone che possiedono un fondo pensione ma che hanno smesso di versare, dei quali circa la metà da oltre 5 anni.

“I dati che emergono mostrano quanto sia necessario e urgente occuparsi da subito del proprio futuro, integrando la pensione pubblica con una qualche forma di previdenza complementare”, ha commentato Andrea Rocchetti, Global Head of Investment Advisory di Moneyfarm. “L’industria del risparmio gestito è chiamata ad attivarsi per stimolare la consapevolezza dell’inadeguatezza della sola previdenza pubblica e ad accompagnare lavoratori e non nella scelta della forma di pensione integrativa più adatta alle loro esigenze”.

Italiani consapevoli, ma poco informati e troppo prudenti

Eppure, stando a quanto emerge da una recente analisi di Anima SGR, gli italiani sembrano consapevoli che una volta in pensione l’assegno Inps non sarà più sufficiente. Nel sondaggio, 9 intervistati su 10 affermano di aver pensato a questo problema e di ritenerlo “molto” o “abbastanza” rilevante, eppure, la quota di intervistati che dichiarano di avere attivato una qualche soluzione di previdenza integrativa si ferma al 54%.

“Inoltre”, si legge nello studio di Anima, “molti dei titolari di un prodotto di risparmio previdenziale non lo alimentano a sufficienza o non lo fanno in modo sistematico: rapportando il numero totale degli aderenti alle masse amministrate complessive, risulta che a ogni aderente corrisponda, in media, una posizione pari a 22.180 euro, insufficiente per integrare in modo adeguato la pensione pubblica per molti anni”.

Interessante poi notare come dall’indagine emerga inoltre un orientamento estremamente prudente: quasi quattro italiani su 10 – con percentuali rilevanti anche fra i giovani – sceglierebbe la linea d’investimento garantita o la più conservativa in assoluto, mentre solo il 15% opterebbe per una linea prevalentemente azionaria o azionaria, nonostante l’orizzonte temporale di lungo periodo suggerisca in genere – al di là dei casi dei singoli investitori – un’asset allocation che comprenda anche azioni. Questa cautela è poi particolarmente significativa analizzando il dato di genere: solo il 9% delle donne è disposto a sottoscrivere un piano previdenziale dove la componente azionaria sia prevalente.

Più flessibilità e meno tasse le soluzioni?

Fra le cause di tale inerzia, la ricerca cita la scarsa familiarità con la previdenza integrativa e i suoi vantaggi, che solo il 39% del campione afferma di conoscere adeguatamente, o l’inclinazione a indirizzare il capitale ad altre destinazioni. Ad esempio, quasi la metà di chi dispone di un TFR dichiara di lasciarlo in azienda, o per una mancata conoscenza delle alternative o perché convinto di optare per una soluzione più liquida e più sicura.

Fra i temi toccati, infine, le priorità ritenute più importanti per incentivare l’adesione alla previdenza integrativa: in cima alla classifica c’è una maggiore flessibilità nell’accedere al capitale prima del pensionamento, seguita da una riduzione della tassazione sui rendimenti, dall’aggiustamento dei benefici fiscali all’inflazione e dall’aumento del massimo deducibile dall’Irpef. Due terzi dei dipendenti, inoltre, sarebbe disponibile a chiedere alla propria azienda di aprire una convenzione con un fondo pensione aperto e oltre otto su 10 ritengono che un’azienda impegnata su questo fronte sia ben posizionata per fidelizzare i dipendenti.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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