La pressione fiscale crescerà ancora? Occhio a PIL, dazi e inflazione

Negli ultimi anni, le imposte dirette sono aumentate più che proporzionalmente rispetto ai salari e l’incertezza generata dai dazi potrebbe avere un impatto sul PIL, con conseguenze negative per i contribuenti.

Sara Silano 11/06/2025 | 13:25
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Punti-chiave

- La pressione fiscale ha superato il 50% nel quarto trimestre 2024 e la manovra di bilancio 2025 aumenta la sensibilità dell’IRPEF all’inflazione soprattutto per i lavoratori dipendenti.

- Dal 2010 il PIL reale italiano è rimasto praticamente invariato, mentre quello nominale è cresciuto per effetto dell’inflazione.

- L’incertezza generata dai dazi potrebbe accrescere l’inflazione e far rallentare l’economia.

- L’aumento delle entrate fiscali, insieme al contenimento della spesa pubblica, sostiene il giudizio positivo delle agenzie di rating sul debito sovrano italiano.

La pressione fiscale in Italia ha superato la soglia del 50% nel quarto trimestre 2024, secondo quanto riportato dall’Istat. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è cresciuta di 1,5 punti percentuali. Su base annua, è in aumento da due anni e ci si domanda se la tendenza sarà confermata dai prossimi dati dell’Istituto italiano di statistica relativi al primo trimestre 2025 che saranno diffusi a fine giugno, tra i timori per gli effetti dei dazi e il rallentamento economico.

Intanto, mercoledì 11 giugno l’Ufficio parlamentare di bilancio ha pubblicato un rapporto nel quale si afferma che la manovra di bilancio 2025 del governo guidato da Giorgia Meloni, che ha reso strutturale la decontribuzione – attraverso l’introduzione di un bonus e di detrazioni specifiche per il lavoro dipendente – e l’accorpamento delle aliquote dell’IRPEF – inzialmente disposto per il solo 2024 - aumenta la sensibilità dell’imposta sul reddito delle persone fisiche all’inflazione, soprattutto per i lavoratori dipendenti. In questi casi si parla di drenaggio fiscale o fiscal drag, fenomeno in cui l’aumento dell’inflazione determina un incremento della pressione fiscale, anche se il reddito reale non aumenta.

“In base a stime ottenute con il modello di microsimulazione dell’UPB, nel passaggio dal regime 2022 a quello 2025, il maggiore prelievo da drenaggio fiscale associato a 2 punti percentuali di inflazione è più alto di circa 370 milioni (+13%)”, si legge nel rapporto parlamentare.

Cosa si intende per pressione fiscale?

La pressione fiscale è un indicatore economico che misura, in termini percentuali, il rapporto tra l’insieme delle imposte dirette, indirette, in conto capitale e i contributi sociali e il Prodotto interno lordo. In sintesi, mostra quanto lo Stato chiede ai cittadini per far funzionare l’apparato amministrativo e i servizi sociali. Il dato del PIL utilizzato è quello nominale, ossia non depurato dagli effetti dell’inflazione.

Dal 2010 – secondo uno studio di Analisi economica – il PIL reale è pressoché rimasto invariato (+5% in 14 anni), mentre quello nominale è cresciuto per effetto dell’inflazione. Non solo, negli ultimi due anni le imposte e i contributi sono saliti più del PIL. “In particolare le imposte dirette sono cresciute di più, rispetto alle imposte indirette e ai contributi”, precisa Gabriele Serafini autore del report e professore presso l’Università degli studi Niccolò Cusano di Roma.

Perché è cresciuta la pressione fiscale in Italia?

“La crescita della pressione fiscale è stata causata in particolare dalle imposte sul reddito [come l’IRPEF], non dovuta, però, a un recupero della evasione fiscale, in quanto questa, almeno negli ultimi anni disponibili, ha interessato maggiormente l’IVA, probabilmente per effetto della fatturazione elettronica”, afferma Serafini.

L’aumento della pressione fiscale, conclude lo studio – è stato dettato dettato da un incremento delle entrate da imposte sui redditi, senza però che i contribuenti abbiano speso di più e quindi ci sia stato un innalzamento significativo del PIL.

Le statistiche Istat, infatti, rivelano che tra il 2023 e il 2024 c’è stato un aumento del reddito disponibile delle famiglie a prezzi correnti (ossia non rettificati per l’inflazione) del 2,7%, ma i consumi sono cresciuti in misura minore (+1,7%).

A questo proposito, bisogna tenere in considerazione anche il fiscal drag. Come si legge in un recente studio di Itinerari previdenziali, i rinnovi dei contratti nel periodo 2021-2024 hanno fatto aumentare i salari, ma non in modo sufficiente da recuperare l’inflazione. Inoltre l’IRPEF del lavoro dipendente e dei pensionati è aumentata più che proporzionalmente rispetto ai salari per via del sistema fiscale progressivo.

“Il saldo degli interventi redistributivi ha sottratto alle famiglie 130,8 miliardi di euro nel 2024, 14,3 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Le imposte correnti pagate dalle famiglie sono aumentate di 19,5 miliardi di euro (+7,6% rispetto al 2023), per la crescita del gettito dell’IRPEF (+5,0%) e delle ritenute sui redditi da capitale e sul risparmio gestito (+67,1%)”, si legge nel rapporto sui conti nazionali dell’Istituto di statistica, pubblicato lo scorso 4 aprile.

Occhio a dazi e PIL

Guardando avanti, i contribuenti italiani devono tenere d’occhio i dazi e l’andamento del PIL. “I dazi, anche solo minacciati, possono comportare un incremento dell’inflazione e una riduzione del PIL reale”, spiega a Morningstar Serafini, il quale però ricorda che la pressione fiscale è calcolata sul Prodotto interno lordo nominale per cui ne potrebbe risentire solo qualora i redditi dei lavoratori dipendenti, che costituiscono la maggiore fonte di gettito tributario, venissero adeguati all’inflazione, incrementando così sia il numeratore che il denominatore del rapporto, ossia il gettito fiscale e il PIL, per la parte legata ai consumi.

“La probabilità che questo accada è tuttavia per ora limitata, almeno fino a quando non si invertirà il trend di riduzione dei salari e degli stipendi che continua da anni”, spiega ancora il professore.

Anche se i dazi venissero evitati grazie alla negoziazione con gli Stati Uniti, l’incertezza generata dalla gestione irrazionale delle politiche tariffarie da parte del Presidente Donald Trump fa sì che un impatto sul PIL potrebbe comunque esserci.

“L’incertezza costituisce una delle principali fonti di astensione dagli investimenti, per gli imprenditori”, dice Serafini, il quale non esclude poi “che si possano realizzare comportamenti opportunistici e speculativi, col fine di incamerare sostegni dallo Stato o per realizzare guadagni dalle variazioni dei tassi di cambio e dagli aggiustamenti dei tassi di interesse”. In sintesi, questo porterebbe alla frammentazione del quadro economico “indotta da una spinta verso la speculazione, piuttosto che verso la produzione”.

Crescita economica in rallentamento in Italia

Secondo l’Istat, nel primo trimestre il PIL italiano è cresciuto dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dello 0,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Per quanto riguarda l’intero 2025, l’OCSE ha rivisto al ribasso le previsioni per l’economia del Belpaese allo 0,6% dopo che a marzo aveva già tagliato le stime allo 0,7% per l’anno in corso.

Per Paolo Pizzoli, senior economist di ING, “una decelerazione della crescita appare molto probabile nel secondo trimestre”, a causa dei dazi e del loro impatto indiretto sulla fiducia che si ripercuoteranno sulle esportazioni e, probabilmente, sugli investimenti industriali.

Cosa significa l’aumento delle entrate fiscali per i titoli di Stato?

L’aumento delle entrate fiscali, insieme al contenimento della spesa pubblica, sostiene il giudizio positivo delle agenzie di rating sul debito sovrano italiano. Tra queste, Morningstar DBRS, assegna all’Italia un rating pari a BBB (alto) con trend positivo. Come abbiamo scritto recentemente, la percezione relativa degli investitori sull’Italia sembra essere migliorata e la discesa dello spread BTP-Bund sotto i 100 punti ne è un indicatore significativo.

Il calo dello spread, insieme alla riduzione dei tassi di interesse, generalmente tende a far diminuire i rendimenti dei titoli di Stato, con il risultato di fare aumentare i prezzi di quelli in circolazione che offrono yield superiori alle obbligazioni di nuova emissione. Ma quali sono le prospettive future?

In un report del 2 giugno, Goldman Sachs ha indicato “tre ragioni per essere costruttivi sul debito pubblico italiano”, tra cui “il rischio basso di instabilità politica”. In passato è stata proprio questa una delle cause principali dell’allargamento dello spread. “Secondo i sondaggi, l’attuale governo è l’unico esecutivo italiano degli ultimi 20 anni ad aver guadagnato in popolarità nei 30 mesi successivi al suo insediamento. Prevediamo che questa condizione si manterrà almeno fino al prossimo anno, data l’assenza di catalizzatori politici rilevanti”, si legge nel report di Goldman Sachs.

Le altre due ragioni sono l’aumento dei tassi reali a causa della disinflazione, dei dazi statunitensi e dell’aumento dei rendimenti a lunga scadenza e il sostegno del Recovery Fund, il programma di aiuti finanziari dell’Unione europea per la ripresa dopo la pandemia di Covid-19.

Gli economisti di Goldman Sachs avvertono, però, che un miglioramento duraturo del debito italiano richiede “un progresso strutturale dell’economia”, ricordando che l’Italia è l’unico Paese dell’EMU4 (Germania, Francia, Italia e Spagna) ad aver registrato una crescita della produttività negativa negli ultimi due anni, nonostante l’ampio sostegno fiscale agli investimenti offerto dal Recovery Fund.


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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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