Closet tracker, ovvero fondi che sono gestiti seguendo quasi fedelmente l’indice, ma hanno i costi di una gestione attiva. Un anno fa, l’Esma, autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, aveva pubblicato uno studio, secondo il quale il 15% degli azionari “attivi” avrebbe potuto essere classificato come semi-passivo. Siccome uno dei suoi obiettivi primari è la tutela degli investitori, l’authority sollecitava ulteriori indagini da parte delle Consob locali ed eventuali azioni comuni per aumentare la trasparenza da parte degli operatori di mercato.
Il caso norvegese
Dopo un anno, il tema continua a essere al centro dell’attenzione. La Norvegia è probabilmente il paese dove ci sono state le conseguenze maggiori. L’autorità di vigilanza ha pubblicamente ripreso DNB, la principale società di gestione, perché applicava commissioni troppo elevate sul suo più grande fondo azionario norvegese, nonostante avesse un active share (misura di quanto il portafoglio si discosta dall’indice) basso. L’asset manager ha quindi provveduto a ridurre i costi e aumentare la gestione attiva. Ma la vicenda non si è conclusa così. Recentemente, l’autorità di tutela dei consumatori ha vinto la causa, intentata per conto di 180 mila clienti del fondo, per il risarcimento dei danni.
I paesi nordici, in particolare Svezia e Irlanda, oltre alla Norvegia, sono stati i primi ad incrementare i controlli sui cosiddetti closet tracker. Recentemente il regulator di Stoccolma ha reso noti alcuni nomi di società con fondi a basso active share, non dando, però, una precisa descrizione delle caratteristiche prese in considerazione.
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