Gli emerging non tolgono la retromarcia

Cina, Usa e commodity continuano a pesare sull’andamento dei paesi in via di sviluppo. Le valutazioni sono interessanti, ma serve cautela. 

Marco Caprotti 16/09/2015 | 15:04
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La Cina va piano, le commodity rallentano e gli Usa si preparano ad alzare i tassi di interesse. Tutti elementi che costringono i mercati emergenti a viaggiare ancora in retromarcia, portandosi al traino i rendimenti degli investitori. La fotografia scattata dagli indici, in questo senso, è impietosa: il paniere Msci EM, ad esempio, nell’ultimo mese (fino al 15 settembre e calcolato in euro) ha perso il 7,74%, portando a -7,67% la performance da inizio anno.

Gli ultimi colpi alla fiducia degli emerging sono arrivati da Pechino. Il peggio è avvenuto venerdì 21 agosto quando il rapporto sui direttori degli acquisti (considerato uno degli indicatori dello stato di salute di un paese) è stato peggiore delle attese. Il dato ha indotto gli investitori a pensare che il quadro macro fosse più debole del previsto e ha accelerato le vendite su tutti i paesi in via di sviluppo. Ma a far venire i sudori freddi, qualche giorno prima, era stata la scelta della Banca centrale del paese asiatico di far svalutare lo yuan (o renminbi) per tre volte di seguito nei confronti del dollaro (1,9% la prima volta, 1,6% la seconda e poco più dell’1% la terza). Nel frattempo gli emergenti devono fare i conti con il calo del prezzo del petrolio (e più in generale delle materie prime) che, in parte, è legato al rallentamento della Cina. Il resto delle responsabilità se lo devono dividere gli Usa (che producono shale oil a basso costo) e l’Opec (che ha deciso di non toccare la produzione e lasciare andare le quotazioni in picchiata).

Le scelte degli Usa
Un altro elemento di preoccupazione è legato alle scelte di politica monetaria degli americani che, come in passato, avranno impatto anche sugli emerging. “Negli ultimi 10 anni l'indebitamento in dollari delle società non bancarie è cresciuto da mille a 3mila miliardi di dollari, con una domanda di credito in valuta Usa venuta prevalentemente dalla Cina, ma anche da gran parte degli altri emergenti”, spiega una nota firmata da Erik Renander, gestore del fondo HI Africa Opportunities di Hedge Invest SGR. “La fine delle politiche di Quantitative easing della Federal Reserve ha causato un rafforzamento del dollaro che sta già impattando negativamente sui debitori dei paesi emergenti, i quali stanno cercando di coprire la propria esposizione valutaria oppure di vendere attività per rimborsare i prestiti in dollari. Pertanto, le valute locali in tali paesi si stanno rapidamente deprezzando, i tassi di interesse stanno aumentando e il valore reale delle attività finanziarie (azioni, obbligazioni) e immobiliari sta diminuendo.

Un asset difensivo?
In mezzo a questa situazione, la ricerca di rendimento non può che essere difficile. “A seguito di un periodo di eccessivo pessimismo da parte degli investitori nei confronti dei mercati emergenti, che ha portato a flussi persistentemente negativi verso i fondi e prolungate sottoperformance dei paesi sviluppati, le previsioni per i mercati azionari sono molto basse” dice un report firmato da Wolfgang Fickus, membro dell'Investment committee di Comgest. “L'azionario emergente è indietro di dieci anni rispetto a quello sviluppato in termini di valutazione relativa, elemento positivo per questa asset class. Paradossalmente, di conseguenza, i mercati emergenti potrebbero dimostrare di essere abbastanza difensivi, a meno che non stiano facendo un passo avanti verso una fase finale di capitolazione”.

 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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