La nuova scommessa della frontiera

I mercati non ancora emergenti sembrano resistere bene alle fasi di volatilità. In ottica di diversificazione, dicono gli operatori, sono una buona scelta. Ma, aggiungono, è meglio ricordarsi che non sono tutti uguali. 

Marco Caprotti 25/05/2016 | 15:15
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I mercati di frontiera provano a farsi notare. La categoria Morningstar dedicata ai fondi specializzati sui paesi non ancora emergenti nell’ultimo mese (fino al 23 maggio e calcolata in euro) ha fatto segnare +1,5%, portando a -0,38% la performance da inizio anno. L’analisi del Max drawdown mostra intanto che, dai massimi degli ultimi tre anni (toccati ad agosto 2016), la categoria si è lasciata per strada il 18,6%. In generale si tratta di risultati apprezzabili se si considera che si ha a che fare con asset considerati rischiosi.

Cambia il rischio?
Ma è proprio la percezione del rischio che negli ultimi anni potrebbe essere cambiata facendo vedere la frontiera come un asset particolare. “Storicamente i singoli mercati di frontiera sono sempre stati considerati molto pericolosi”, spiega Patricia Oey, analista di Morningstar. “Ma quando gli investimenti in questi paesi sono combinati all’interno di un portafoglio diversificato geograficamente, questo può portare a un calo del rischio”. Oggi quando si parla di paesi di frontiera ci si riferisce in molti casi a economie dinamiche, con un fiorente tessuto societario e una classe imprenditoriale preparata. Molti di questi si sono trasformati negli ultimi vent'anni facendo progressi su diversi fronti - alfabetizzazione, accesso al credito, rivoluzione nelle comunicazioni, affidabilità del settore pubblico - e hanno posto le basi della democrazia. Questi progressi hanno consentito una crescita sostenibile e in genere le società quotate nelle Borse locali ne hanno beneficiato molto.

I punti di forza
“I frontier market probabilmente godranno dei tassi di crescita economica più alti al mondo nei prossimi cinque anni, grazie a fattori quali la bassa penetrazione di beni e servizi, la rapida urbanizzazione, i progressi tecnologici, la crescente disponibilità di credito per il settore privato”, spiega un report firmato da Gabriel Sacks, Investment manager di Aberdeen AM. “A differenza di molti paesi sviluppati, i mercati di frontiera ospitano una popolazione giovane e in crescita che contribuirà alla crescita della forza lavoro e all'incremento dei consumi locali. Negli ultimi anni c’è stato un miglioramento della governance e dell'affidabilità di questi stati: i leader politici sembrano aver compreso la necessità di una gestione ortodossa dell'economia per mantenere stabilità e attirare gli investimenti”.

La scommessa degli investitori è quella di veder crescere questi asset e di osservarli muoversi con le stesse dinamiche mostrate dagli emergenti. Nel 1988 il neonato indice MSCI Emerging Markets rappresentava meno dell'1% della capitalizzazione di mercato globale, mentre oggi i mercati in via di sviluppo contano per il 13%. Ed è possibile che le aree di frontiera subiscano la stessa sorte, considerando che, in totale, rappresentano più di 100 Paesi per oltre il 30% della popolazione mondiale e quasi il 10% del Pil globale. “Questo non significa che l’asset della frontiera non vada maneggiata con estrema cautela”, dice Oey. “L’instabilità politica di alcuni di essi resta un dato di fatto. Dal punto di vista più squisitamente economico bisogna vedere quali sono i trend di richiesta delle materie prime che, di solito, questi stati esportano”. 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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