“Panico”, “terrore”, “terremoto”, “tempesta”. Non hanno lesinato in catastrofismo i media nei giorni scorsi per descrivere gli effetti che una frenata cinese potrebbe avere sulle economie mondiali e sui listini di Borsa. Questa professione di pessimismo, tuttavia, secondo alcuni operatori potrebbe essere esagerata.
E’ vero che il 2016 sui mercati finanziari è iniziato come nessuno avrebbe voluto. Nel primo giorno di contrattazioni dell'anno si sono registrati ribassi di oltre il 7% sui listini cinesi e tra il 2% e il 3% su quelli europei e americani. Scene simili si sono viste due giorni dopo (il 6 gennaio), facendo scattare a Shanghai e Shenzen i cosiddetti circuit breaker, entrati in vigore proprio quest’anno, che prevedono la sospensione degli scambi per il resto della giornata quando il mercato cala del 7%. I dati sul fronte economico e la decorrenza dei termini delle azioni intraprese dai policy maker cinesi a seguito dei crolli avvenuti ad agosto - uniti alle tensioni internazionali – hanno, insomma, condotto al panic selling. Questo ha portato a ribassi storici con relative sospensioni delle contrattazioni e immediate iniezioni di liquidità da parte della PBoC nel sistema finanziario per 130 miliardi di yuan.
Sviluppati a rischio?
Ma la frenata della prima economia emergente del mondo potrebbe innescare un circolo vizioso tale da risucchiare prima gli Usa e poi il resto del mondo sviluppato? “L’impatto dell’economia cinese sulla congiuntura Usa è minimo”, spiega Robert Johnson responsabile dell’analisi economica di Morningstar. “Le esportazioni verso il colosso asiatico rappresentano meno dell’1% del Pil americano. Messico, Canada ed Europa, ad esempio sono migliori acquirenti di beni made in Usa rispetto ai cinesi”. Va aggiunto, però, che una frenata di Pechino non è comunque da prendere alla leggera. “Alcuni paesi sviluppati ed emergenti del mondo hanno relazioni commerciali importanti con la Cina. E alcuni di questi, rappresentano una fetta importante dell’export statunitense”, dice Johnson.
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