L’emerging frena ma non si ferma

Le aree in via di sviluppo stanno attraversando un periodo di appannamento. Ma le prospettive di crescita non sono cambiate. Nemmeno nel breve periodo. 

Marco Caprotti 04/06/2015 | 11:28
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I mercati emergenti segnano il passo. L’indice Msci che raccoglie i paesi in via di sviluppo nell’ultimo mese (fino al 2 giugno e calcolato in euro) ha perso il 3,4%, portando a +14,5% la performance da inizio anno.

La fuga degli investitori si spiega in parte con il peggioramento delle prospettive di crescita globale (che ha convinto gli investitori ad allontanarsi dagli asset considerati più rischiosi) ma, anche, con il prossimo rialzo dei tassi Usa che spinge gli operatori ad orientarsi su attività finanziarie denominate in dollari.

Non mollare gli emerging
Una scelta che, guardando ai numeri potrebbe essere controproducente. La Banca mondiale ha da poco rivisto al ribasso le stime per i paesi sviluppati che, quest’anno dovrebbero registrare una crescita del 2,2% che diventerà +2,4% nel 2016 e +2,2% nel 2017. Lo scenario dipinto per gli emerging mostra un’altra direzione: +4,8% quest’anno, +5,3% il prossimo e +5,4% quello seguente.  Entro il 2020, inoltre, il Pil di Cina e India in aggregato supererà quello degli Usa. Secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale, peraltro, il Pil dei paesi emergenti dal 2014 ha già superato quello delle aree sviluppate.

Alla base di questo diverso andamento, secondo la World Bank ci sono principalmente ragioni di tipo demografico. Nei developed country la popolazione sta invecchiando rapidamente. Una situazione destinata ad aumentare nel prossimo decennio. Il Giappone, per esempio, entro la fine di questo secolo potrebbe avere più persone in pensione che lavoratori. Un trend contrario a quello, ad esempio, di India e Brasile ma anche di un paese come la Cina che ha da poco messo fine alla politica del figlio unico.

Ma alla base della scelta di non abbandonare gli emergenti ci sono anche motivazioni legate alla diversificazione. Gli Stati Uniti, da soli, rappresentano il 36,2% dell’intera capitalizzazione di Borsa a livello mondiale. Gli emerging hanno il 24,6%. Una quota destinata a salire alla luce delle riforme economiche e dei processi di privatizzazione che stanno interessando molti stati dell’universo emerging.

Nel breve occhio ai developed
Nel breve e medio periodo, intanto, le dinamiche degli emerging sembrano essere legate a quelle dei developed. “Con la ripresa di Usa, Eurozona e Giappone, aumenterà probabilmente anche la domanda estera di beni prodotti nei paesi in via di sviluppo”, spiega uno studio firmato da Patrick Zweifel, capo economista di Pictet Asset Management. “In base alle nostre stime, nel secondo trimestre Stati Uniti, area euro e Giappone evidenziano un’espansione dell’1,8% annuo, un tasso che storicamente coincide con un incremento dell’export dai mercati emergenti del 10% annualizzato. È vero, negli ultimi anni la sensibilità dell’export dei mercati emergenti alla crescita mondiale è forse leggermente diminuita in quanto stanno svanendo i benefici delle riforme realizzate in passato, ma la relazione fra le due variabili è ancora valida e può far lievitare notevolmente le esportazioni dai mercati emergenti. Un aumento delle esportazioni migliorerebbe il saldo delle partite correnti e quindi favorirebbe una rivalutazione delle divise emergenti rispetto al dollaro”.

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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