Il petrolio non è più quello di una volta

Il barile, dicono gli operatori, difficilmente rivedrà valori record registrati in passato. Colpa del calo della domanda e dello shale americano. E della nuova strategia dell'Arabia, che non vuole favorire i suoi concorrenti.

Valerio Baselli 05/02/2015 | 10:17 Marco Caprotti
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Mentre i consumatori e le aziende gongolano contando quanto gli resta in cassa ogni giorno grazie al calo dei prezzi del petrolio, gli operatori di mercato studiano le tattiche dei grandi estrattori per capire se il barile sarà in grado di rialzarsi dai 40-50 dollari toccati negli ultimi mesi. L’opinione prevalente è che difficilmente si tornerà a livelli vicini ai 100 dollari. In realtà sembra complicato arrivare anche a quei 70-80 dollari che rappresentano la soglia minima per rendere economicamente vantaggioso estrarre oro nero.

Il barile è cambiato
I motivi sono diversi. Innanzitutto c’è un problema di domanda. I consumi di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, in dieci anni, sono calati di oltre il 15%. L’Energy information administration americana, nel suo World Energy Outlook del 2014, prevede fino al 2040 un ulteriore calo del consumo europeo di prodotti petroliferi, per un ammontare di oltre il 30%. Sul continente americano, intanto, la produzione interna di petrolio è fortemente aumentata, in gran parte per effetto della produzione di shale oil.

“In un decennio, gli Stati Uniti sono passati dal dipendere per oltre il 63% dalle importazioni, a una dipendenza attuale inferiore al 40%”, spiega uno studio di MoneyFarm. “Su un consumo totale di poco inferiore a 19 milioni di barili al giorno, a fine 2014 ne producevano più di 11 milioni e dei restanti otto, ne importavano più di 2,5 dal Canada. Le previsioni prevalenti (in gran parte precedenti al recente calo del prezzo) indicano un’ulteriore crescita della produzione interna (sia di gas che di petrolio) e un raggiungimento dell’autosufficienza con l’inizio del prossimo decennio”.

Europa e Stati Uniti, insomma, non sembrano in grado di fornire la spinta necessaria ai prezzi del petrolio. Resta l’Asia. “La Cina vede i consumi di gas e di petrolio attesi in crescita del 5,2% e dell’1,8% (valori medi annui) per i prossimi 25 anni. Al contempo, l’India stima una crescita rispettivamente del 4,6% e del 3,5%”, continua lo studio. “L’Asia sembra quindi essere l’unico luogo con potenziali margini di ulteriore crescita del consumo d’idrocarburi nel lungo termine. Ma anche questi, nel breve periodo, non sembrano poter influenzare più di tanto l’andamento dei prezzi della materia prima”.

Recessione o nuovo mondo?
C’è da dire che le Borse non la stanno prendendo bene. Nelle ultime settimane il calo dei prezzi del barile ha contribuito non poco all’aumento della volatilità. I timori sono sostanzialmente due: i bilanci delle grandi compagnie petrolifere (che contribuiscono non poco alla capitalizzazione di diversi indici) e la paura che il calo dei prezzi dell’oil sia la sirena che manda l’allerta su una nuova recessione mondiale. “In passato le crisi energetiche non sono mai state il catalizzatore di frenate economiche”, spiega uno studio di Gary Black, analista di Calamos Investments. “Le grandi economie del pianeta non dipendono dalla vendita di petrolio. E se la debolezza del barile dovesse trasferirsi ad altri settori, le Banche centrali sono attrezzate a sufficienza per farvi fronte”.

Secondo alcuni operatori, di fatto, siamo all’alba di un nuovo mondo per il mercato del petrolio, nel quale il prezzo di equilibrio dell’oro nero sarà ben al di sotto della media degli ultimi 10 anni. “Circa 20 anni fa il prezzo d’equilibrio era di 20 dollari al barile”, ha spiegato Frédéric Lasserre, presidente e cofondatore  di Belaco International, durante la conferenza annuale sugli investimenti organizzata da Etf Securities a Parigi. “E’ arrivato a 30 durante certi periodi di espansione economica per scendere a 10 durante alcune recessioni”. Nel 2003, di colpo si è arrivati a 26 dollari, una quota che ha segnato l’inizio della corsa verso 150. 

Il ruolo dell’Arabia Saudita
Da tutto questo quadro non può essere lasciata fuori l’Arabia Saudita. Il paese, considerato fino all’arrivo del shale oil l’unico swing producer (cioè in grado di diminuire o aumentare facilmente l‘estrazione), nell’ultima riunione dell’Opec (il cartello che riunisce i maggiori produttori) ha detto chiaramente che non intende chiudere i rubinetti e, secondo diversi analisti, non lo farà nemmeno nel meeting di giugno. La scelta ha una sua ratio. Tagliando la produzione per far alzare i prezzi, l’Arabia non farebbe altro che cedere ad altri la sua quota di mercato (i membri del cartello raramente sono stati disciplinati quando hanno deciso di ridurre l’estrazione) e contribuirebbe a far aumentare di nuovo il prezzo del barile. Compreso quello riempito con il petrolio di scisto.

I sauditi, insomma, preferiscono basare la loro gestione sul lungo termine, anche perché hanno riserve stimate per i prossimi 50 anni. “Mirano a produrre 9-10 milioni di barili al giorno a un prezzo medio di 60 dollari”, ha detto Lasserre. “Ma attenzione, questo non significa avere quel livello di prezzo in maniera costante. Vuol dire, invece, bilanciare i momenti in cui i valori devono essere al di sotto per stimolare la domanda con altri in cui i prezzi saranno più alti”.

 

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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