Quello che la Fed non dice

La Banca centrale Usa è stata troppo vaga sulla durata della politica monetaria accomodante e sulle modalità di un eventuale rialzo dei tassi. L'incertezza preoccupa gli investitori. Ma le occasioni, per chi ha orizzonti di lungo periodo, non mancano. 

Marco Caprotti 02/10/2014 | 13:25
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“So che credete di aver capito cosa pensate abbia detto, ma non sono sicuro che comprendiate che, quello che avete sentito, non è quello che ho detto”. Sembravano passati i tempi in cui il mitico presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan (in carica dal 1987 al 2006) confondeva i mercati e i media nel tentativo di spiegare le sue scelte di politica monetaria. Il suo successore, Ben Bernanke, infatti, si era distinto per la chiarezza. L’attuale capo della Fed, Janet Jellen, invece, sembra aver fatto tornare gli operatori agli esercizi di decrittazione a cui si erano abituati ai tempi del Maestro (come veniva chiamato Greenspan), creando non  pochi problemi a chi deve fare scelte di portafoglio.

Le parole di Janet
Durante l’intervento dopo l’ultima riunione della Banca centrale Usa in cui il Fomc (Federal open market committee, il braccio operativo della Banca centrale Usa) ha deciso di non abbandonare la politica accomodante, l’attuale governatore ha detto che i tassi resteranno vicino allo zero “per un periodo considerevole di tempo” dopo la fine del Quantitative easing. Una espressione che dice poco sul calendario di eventuali aumenti del costo del denaro e che nasconde insidie per gli investitori.

Problemi simili fa nascere un'altra formula usata da Yellen quando, illustrando le linee della sua politica monetaria, ha detto che un atteggiamento “fortemente accomodante”, è ancora appropriato. Non è chiaro, però cosa questo significhi in un momento in cui i Federal fund rate sono compresi fra 0% e 0,25%.“Comunemente si parla di politica accomodante ogni volta che i tassi di interesse sono al di sotto del 2%”, spiega uno studio firmato da Scott Minerd, responsabile degli investimenti di Guggenheim Partners. Ma da 0 a 2% c’è molta strada”.

L’effetto Fed
La questione per i mercati è rilevante, considerando che le scelte della Banca centrale Usa influiscono sulle decisioni dei trader più che sull’andamento dell’economia reale. “Le mosse future della Fed condizioneranno i prezzi degli asset che, al momento, sono prezzati al netto dei tassi di interesse”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I cambiamenti di politica della Fed sono spesso stati dei market mover. L’anno scorso le voci che la Banca fosse in procinto di alzare i tassi ha mandato a tappeto bond ed equity”. Detto questo, bisogna anche tenere presente che la Fed non è l’unico giocatore sul campo dei mercati. Per decenni, anzi, è stata accusata di muoversi a riporto delle condizioni congiunturali, arrivando in molte occasioni in ritardo. “Insomma, la Banca centrale Usa non è un dio infallibile”, dice Jonhson. “Gli investitori farebbero bene a spendere più tempo facendo le proprie analisi, studiando le tendenze globali e analizzando i trend sulle richieste di capitali. Non credo che un aumento dei tassi di interesse dell’1% possa condizionare più di tanto le scelte di una famiglia che chiede un mutuo o di un’azienda che vuole investire. Oltre quel livello, però, i conti sarebbero da rifare”.

C’è poi un altro problema. Le carte della riunione della Fed mostrano che alcuni governatori che formano il Fomc non condividono le previsioni economiche e sul futuro dei tassi della maggioranza. Cosa succederebbe se il loro numero dovesse aumentare? “I mercati odiano le situazioni di incertezza e opinioni troppo divergenti rischiano di disorientare gli operatori”, dice Johnson.

Occhio alle M&A
Questa situazione di insicurezza, unita all’aumento dei rischi geopolitici (e in alcuni scenari gli Usa sono parte attiva), può creare opportunità di acquisto per gli investitori che hanno un obiettivo temporale di lungo periodo.

“Negli ultimi anni le aziende americane hanno utilizzato i soldi guadagnati per aumentare i dividendi o riacquistare azioni proprie. Scelte che, in una situazione di crescita incerta, sono state sistemi sicuri per utilizzare il denaro”, spiega uno studio firmato da Grant Bowers, vice presidente e gestore di Franklin Equity Group. “Con il rafforzamento della situazione congiunturale, le stesse società hanno iniziato a cercare fusioni e acquisizioni per rafforzare la loro posizione competitiva o per entrare in nuovi mercati. L’attività di M&A è ricominciata nel 2013 ed è accelerata quest’anno con grandi operazioni annunciate nei settori dell’healthcare, dei media e degli industriali. In un quadro formato da bassi tassi di interesse, da livelli record di cassa e da valori di Borsa adeguati, crediamo che questa tendenza possa continuare”. 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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