Dove vanno i prezzi del petrolio

Secondo alcuni analisti, le quotazioni scenderanno per effetto degli sviluppi tecnologici e dello shale gas. Tuttavia, non va sottovalutata la domanda asiatica e i progetti per nuovi oleodotti.  

Marco Caprotti 17/07/2014 | 09:49
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Più offerta non significa sempre prezzi più bassi. Almeno per quanto riguarda il petrolio. Dalla fine della recessione dell’economia americana (uno dei più grandi consumatori di oro nero insieme alla Cina), i prezzi del barile sono saliti di quasi il 50% per superare appena i 100 dollari di questi giorni. Un livello che, secondo l’International Energy Agency dovrebbe restare costante per tutto il 2014. La questione su dove possono arrivare i prezzi dall’anno prossimo, invece, è controversa. Alcuni analisti come quelli interpellati da Barron’s, dicono che il petrolio si assesterà intorno ai 75 dollari al barile. Merito, affermano, degli sviluppi tecnologici che permetteranno di estrarre materiale da nuovi siti e che andranno ad affiancare i progressi fatti nel capo dei giacimenti cosiddetti shale negli Stati Uniti.

L’eccesso di offerta è evidenziato anche da altri elementi. Gli ultimi dati della Energy Information Administration dicono che le riserve degli Stati Uniti sono ai livelli più alti da gennaio. L’Opec, intanto, nel suo ultimo forecast ha detto che il cartello, pur riducendo nel 2015 l’estrazione a 29,4 milioni di barili al giorno (il minimo dal 2009) sarà comunque in grado di soddisfare la richiesta mondiale, anche in una situazione di crescita economica diffusa. Un’affermazione che ad alcuni pare eccessivamente ottimistica. L’attuale domanda mondiale di petrolio è di 90 milioni di barili al giorno. “Una quantità che però non riesce a soddisfare la sete energetica della Cina, dell’india e dell’Indonesia che devono fare un grande affidamento anche su altri materiali come carbone e gas”, spiega uno studio di Yale Block, analista della società di consulenza Advice IQ.

L’Asia ha sete di petrolio
Il riferimento alla regione asiatica non è casuale visto che la maggior parte dei gruppi petroliferi prevede che la richiesta più ingente nei prossimi 20-30 anni arriverà da quella zona. Anche perché si tratta della regione che, più di altre, contribuirà all’aumento della popolazione globale che passerà dai 7 miliardi di persone del 2010 ai 9  miliardi del 2040. Nello stesso periodo di tempo, secondo la compagnia petrolifera ExxonMobile, la richiesta energetica crescerà del 35%.

Nel conto dei potenziali utilizzatori di petrolio vanno aggiunti il miliardo di persone che, in base ai dati dell’International Energy Agency, attualmente non hanno accesso all’elettricità e i 2,6 miliardi che per cucinare si servono delle biomasse.

Il nodo degli oleodotti
C’è poi un altro elemento in grado di condizionare il prezzo del barile: i sistemi per muovere il petrolio. E anche su questo fronte le prospettive sono rosee per gli investitori e preoccupanti per i consumatori. Gli Stati Uniti aspettano da sei anni il permesso per dare il via all’oleodotto Keystone XL che permetterebbe di trasportare petrolio dal Canada al Texas. Un progetto che, secondo uno studio della società di investimenti T.Boone Pickens, rappresenterebbe un passo importante per far raggiungere agli Usa l’indipendenza energetica.

Qualcuno in Europa, intanto, chiede agli Stati Uniti di portare da questa parte dell’Atlantico più gas naturale per ridurre la dipendenza della regione dagli umori del colosso russo Gazprom. Un’idea tornata prepotentemente di attualità con la crisi fra l’Ucraina e la Russia che ha messo in imbarazzo diversi paesi europei quando si è trattato di condannare le pressioni di Mosca su Kiev. Se anche la Casa Bianca accettasse, peraltro, la soluzione dei problemi del Vecchio continente non sarebbe immediata visto che per mettere in piedi i terminal necessari per ricevere il gas ci vorrebbero almeno cinque anni.

A tutto questo vanno sommati gli interessi commerciali delle società petrolifere che stanno diventando sempre più attente ai costi, anche a rischio di rimetterci in termini di produttività. Royal Dutch Shell, ad esempio, sta cercando di vendere alcuni ricchi giacimenti in Nigeria, dove i suoi oleodotti vengono sabotati regolarmente. BP, invece, sta chiudendo alcune raffinerie in Australia a causa della concorrenza sui prezzi che le fanno alcune facility in Asia.

 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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