Gli Usa non sono in recessione (per ora)

I rischi per l’economia americana sono aumentati. Ma i dati vanno interpretati in un contesto differente dal passato. Più che ai consumi, è meglio guardare ai profitti e agli investimenti. 

Sara Silano 03/03/2016 | 11:16
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I timori di recessione negli Stati Uniti sono ai massimi dal 2009: le probabilità sono del 21% nei prossimi dodici mesi secondo un sondaggio del Wall Street Journal di febbraio 2016. Solo sei mesi fa erano al 10%. Mentre gli economisti cercano tra i dati le conferme o le smentite, l’America si prepara alle elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre con le primarie che decideranno i candidati in lista.

Per Francisco Torralba, senior economist di Morningstar, gli Stati Uniti non sono in recessione, ma il rischio è aumentato. I dati macro presentano diverse ambiguità in un contesto che è molto differente da quello delle passate recessioni perché i tassi di interesse sono bassi e i consumi rivelano meno che nei decenni scorsi il vero stato dell’economia.

C’era una volta la classe media
La crisi del 2007-2008 ha accelerato il processo di indebolimento della classe media, che è stata il vero motore della crescita del Pil nei decenni scorsi. Il processo di deleveraging, ossia di riduzione dell’indebitamento dopo il crac di Lehman Brothers è avvenuto in una fase di redditi mediani in discesa o stagnanti con conseguenze pesanti sui consumi.

Il fenomeno è ben descritto nel XX Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro Studi Einaudi: “Chi di mese in mese si attende segnali vigorosi dalla domanda interna americana è costretto a ricredersi quando analizza in dettaglio i dati. Il solo mercato di beni di consumo che sia cresciuto vistosamente è quello delle automobili, questo perché oltre il 90% delle nuove auto sono vendute con un finanziamento incorporato e una buona parte di tali finanziamenti ha caratteristiche simili a quelle dei mutui subprime. Gli americani, inoltre, stanno ancora aumentando fortemente i prestiti contratti per far studiare i figli. Su tutte le altre voci dei bilanci familiari, siamo di fronte a tagli, o, se si preferisce, alla ricerca di un modello di vita che sia meno caratterizzato dalla centralità dei consumi”.

Verso le elezioni
Non è un caso che la classe media è anche al centro del dibattito politico ed elettorale in vista delle presidenziali. La società statunitense è sempre più polarizzata tra poveri e ricchi, mentre la middle class si è assottigliata passando dal 51% della popolazione, prima della crisi, al 41% negli ultimi anni, complice anche l’aumento di lavori precari, temporanei e mal retribuiti. In altre parole, il cosiddetto “ascensore sociale” che, grazie all’impegno, al merito e a una comunità competitiva, permetteva di raggiungere un buon grado di benessere anche partendo da condizioni modeste, non funziona più.

Quello che, invece, ha funzionato molto bene dal 2009 a metà 2015 è stato il mercato azionario, che è uno dei più importanti canali di finanziamento delle aziende statunitensi e rappresenta il 141% del Prodotto interno lordo, molto più di altri paesi industrializzati. Proprio alla Corporate America bisogna ora guardare per capire se il Paese rischia di entrare in recessione.

I segnali dall’industria
Torralba mette l’accento sulla spirale profitti-investimenti. “Un declino degli utili e delle aspettative future di profitto è una delle condizioni di fondo che rende l’economia più suscettibile a una recessione”, spiega. Tutto comincia con una diminuzione della crescita degli utili, mentre i margini sono ai massimi. Seguono le revisioni delle stime e il posticipo delle spese in conto capitale fino alla loro riduzione o cancellazione, a cui si aggiungono i tagli al personale e a nuove assunzioni. “Dato il prolungato periodo di declino dei profitti, che segue a una fase di picco pluriennale, non sarebbe insolito avere una recessione nei prossimi diciotto mesi”, dice l’economista di Morningstar. “Tuttavia, non siamo in questa situazione ora”.

Deflussi dai fondi a stelle e strisce
Gli investitori europei come hanno reagito alle contraddizioni manifestate dall’economia americana? L’analisi dei flussi verso i fondi azionari specializzati su Wall Street mostra riscatti netti per 22 miliardi di euro dall’inizio dell’anno scorso al 31 gennaio 2016. La tipologia più colpita è stata quella che punta sulle società a larga capitalizzazione value (-8,46 miliardi), seguita dall’equity large cap blend.

Flussi netti nei fondi azionari USA

Tuttavia nel 2015, per un investitore europeo, le performance di questi comparti sono state mediamente positive, grazie alla forza del dollaro, come si vede nella tabella che confronta i rendimenti delle principali categorie Morningstar nelle diverse valute. Per contro i primi due mesi del 2016 sono stati pesanti, in linea con i mercati mondiali.

Rendimenti fondi azionari USA in Euro e Dollari

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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