Zero in condotta

Nonostante le promesse, l’economia comportamentale sembra incapace di dare una mano alla creazione duratura di profitti. Ma è davvero un fallimento? 

John Rekenthaler 06/08/2015 | 12:33
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L’economia comportamentale avrebbe dovuto essere una manna per la gestione attiva degli investimenti. La teoria sull’efficienza di mercato, così come quella sulla superiorià dei fondi indicizzati, sono figlie dell’economia tradizionale, che considera gli investitori come soggetti totalmente razionali. Quando l’economia comportamentale ha dimostrato che il processo decisionale degli investitori è in realtà influenzato da numerosi fattori e che, di conseguenza, l’assunzione di una totale razionalità è solo un costrutto artificiale, la richiesta di una gestione attiva avrebbe dovuto trovare giustificazione.  In un mercato di soggetti ciechi, anche professionisti con un solo occhio appaiono come dei re.

Le prime ricerche vanno a supporto di questo concetto. Con grande stupore dei teorici del mercato efficiente (Eugene Fama fu così sorpreso da assegnare ad uno studente laureato il doppio controllo dei numeri poichè dubitava della  loro accuratezza), nel 1985 Werner De Bondt e Richard Thaler scoprirono che un’idea di investimento molto semplice - acquistare delle azioni con i peggiori rendimenti sui 36 mesi e tenerle per un periodo altrettanto lungo - aveva generato guadagni smisurati rispetto ai precedenti 60 anni. Risultati di questo tipo non possono essere spiegati dalla teoria del mercato efficiente. La spiegazione potrebbe invece provenire da una reazione irrazionale degli investitori, come quelle descritte dagli economisti comportamentali.

L’opportunità per i gestori professionisti sembrava essere immensa. Se l’irragionevole strategia di acquistare un paniere di titoli in perdita poteva comodamente battere l’ S&P 500, allora una strategia ragionata, basata sul supporto di un brillante ed esperto professionista, avrebbe potuto sicuramente stracciare l’intero mercato. In modo affidabile. Con regolarità. Ancora ed ancora.

Tutti noi sappiamo poi come è andata. Non appena l’economia comportamentale ha cominciato ad accrescere la propria popolarità, diventando una delle attività di tendenza a livello accademico e permettendo a Daniel Kahneman di vincere un Premio Nobel (un riconoscimento che avrebbe condiviso con il co-autore Amos Tversky, se solo fosse stato ancora in vita), la performance dei gestori attivi ha iniziato a diminuire. Nel frattempo la piccola Vanguard era ormai diventata di gran lunga la più grande fund company al mondo, principalmente grazie ai suoi fondi indicizzati. La spinta dell’economia comportamentale si era fermata.

Tre problemi
Sono state tre le ragioni per le quali la speranza non si è trasformata in realtà.
La prima è rappresentata dal fatto che la competenza non è tutto. Kahneman, nel suo libro Thinking, Fast and Slow (mia lettura estiva e fonte di ispirazione per questo articolo), racconta di come uno degli shock maggiori delle prime ricerche comportamentali fu apprendere che, nel complesso, i soggetti esperti non sono migliori della massa in termini di ragionamento. Gli esperti individuano immediatamente gli aspetti rilevanti, cosa che permette loro di risolvere velocemente problemi di routine insidiosi per gli altri soggetti. Ma quando i problemi non sono di routine (e quindi richiedono una nuova analisi) gli esperti risultano impacciati come tutti noi.

Uno dei problemi più grandi è il rifiuto di affrontare i fallimenti, in quanto risulta più facile e gratificante ricordare i successi, dimenticare gli errori e proseguire oltre. Ad esempio di ciò, Kahneman racconta della sua esperienza nell’esercito israeliano, dove lui e un collega psicologo erano incaricati di valutare delle persone per il ruolo di ufficiale. I due hanno osservato i candidati attraverso una serie di test, progettati dagli psicologi al fine di misurare le abilità di leadership. Le conclusioni, scrive Kahneman, apparivano ovvie. “Sotto stress ogni uomo aveva rivelato la sua vera natura. Le nostre impressioni sul carattere di ogni candidato erano chiare e convincenti come il colore del cielo.”

Chiare e convincenti, forse, ma non particolarmente accurate. Le previsioni degli psicologi mostravano una bassa correlazione con la successiva performance. (“Le nostre previsioni erano migliori rispetto alle stime casuali, ma non di molto.”) Tuttavia il duo procedeva tranquillamente. All’arrivo di un nuovo gruppo di candidati la coppia confermò che “la reale natura dei candidati si era manifestata in maniera chiara come nei casi precedenti.” Gli psicologi, per loro stessa ammissione, sapevano che le previsioni formulate erano di poco migliori rispetto alle stime casuali, ma continuavano a comportarsi come se ognuna delle loro stime fosse pienamente valida.

Un secondo problema è stato l’aumento della concorrenza. Con tutti i migliori programmi MBA che ad oggi offrono corsi basati sull’economia comportamentale, sempre più gestori hanno importanti strumenti decisionali a supporto delle loro scelte. A dire il vero, conoscere quale sia la decisione giusta da prendere è ben diverso dal prenderla in maniera concreta ma, nondimeno, i gestori di oggi sembrano essere più qualificati rispetto ai loro predecessori e di conseguenza si trovano ad operare in un ambiente più agguerrito e competitivo. Considerazione avanzata sia da articoli accademici che da investitori istituzionali.

In ultimo, ci sono alcuni limiti di cui bisogna tenere conto. In presenza di un mercato con prezzi errati, anche se un gestore mette in atto la giusta manovra per capitalizzare l’opportunità, non esiste garanzia di successo. Il mercato può rimanere in squilibrio più a lungo di quanto il manager possa sopportare (o quantomeno più a lungo di quanto non riesca a trattenere i clienti). Questo problema è stato illustrato in maniera memorabile nel classico di Adam Smith The Money Game, titolo che narra la stranziante storia di un gestore che svendette il Caesar’s Palace nei primi anni settanta. Dal momento in cui la bolla scoppiò, la forza di volonta del gestore crollò ed egli chiuse la sua posizione in forte perdita.

Nuove speranze
Detto ciò, penso che la ricerca comportamentale suggerisca un paio di percorsi d’investimento profittevoli. Il primo riguarda l’utilizzo di approcci meccanici. In accordo con Kahneman, l’utilizzo di un semplice algoritmo spesso restituisce risultati migliori rispetto al totale affidamento sul giudizio individuale di esperti in materia. Egli cita come esempio l’Apgar test utilizzato per giudicare la salute di un neonato: una semplice lista, in grado di essere utilizzata da numerose equipe, che sostituisce la valutazione personale di un medico. L’introduzione del test ha comportato “un contributo importante per la riduzione della mortalità infantile” poichè il consolidamento nell’utilizzo di un sistema universale ha avuto un peso maggiore rispetto alla perdita di intuizioni e giudizi personali.

Gli ovvi candidati risultano essere i fondi strategic beta, i quali meccanizzano strategie di gestione attiva. Valore, momentum, bassa volatilità...se un attributo sembra essere meritevole di un investimento ed è utilizzato come copertura o input dai gestori attivi, allora può essere convertito in una regola (o in un set di regole) in grado di amministrare un fondo strategic beta. Di contro, come con l’Apgar test, il passaggio ad un sistema di regole comporta una perdità di specificità. Ma forse il beneficio dell’uniformità vale questo compromesso, in particolare per i fondi strategic beta che generalmente presentano expense ratio più bassi.

L’altra possibilità consiste nel chiamarsi fuori dal gioco. Lasciare che gli altri si prendano a pugni per i guadagni che possono presentarsi tramite decisioni di breve e medio termine. Sia che vengano conseguiti dal più esperto dei gestori attivi, che tramite gli smart beta, quei premi saranno molto difficili da ottenere, con così tanti soggetti focalizzati sulle medesime operazioni.Altra opzione è invece posizionarsi e attendere. Comprare titoli che per determinate ragioni (la liquidità è solo una di queste, ma ce ne sono altre) non suscitano l’interesse di coloro i quali hanno orizzonti brevi, ma che possono comportare degli extra rendimenti rispetto al mercato sulla lunga distanza.

Questo, ovviamente, è l’approccio seguito dal fondo di investimento più di successo a livello mondiale: il Berkshire Hathaway. Anche un fondo similare, il Sequoia Fund, ha vissuto un buon momento, battendo tutti i fondi a lui comparabili per diversi decenni. Entrambi i fondi prosperano acquistando quando gli altri sono disinteressati. I ricercatori comportamentali indicano che la maggior parte delle persone che si trovano a dover prendere decisioni non riflettono molto su ciò che stanno facendo gli altri soggetti, arrivando alle medesime conclusioni prese dalla massa e seguendo quindi un percorso comune e, molto spesso, affollato. Berkshire e Sequoia non hanno questo problema. Loro conoscono le scelte degli altri fondi e prendono la via opposta.

 

 

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Info autore

John Rekenthaler  is vice president of research for Morningstar.

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