Emergenti, maneggiare con cura

Le valutazioni sono basse, ma non è detto che sia un buon momento per entrare nell’equity dei paesi in via di sviluppo. Gli indici sono cambiati molto e il rischio politico è dietro l’angolo. 

Valerio Baselli 30/04/2014 | 10:13
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Tradizionalmente i titoli azionari dei mercati emergenti vengono visti come un’asset class che offre un forte potenziale di crescita nel lungo periodo, seppur molto volatile. Attualmente l’indice Msci Emerging Markets viene scambiato a un rapporto prezzo/utile (P/E – price/earning) di 12, quattro punti sotto la media degli ultimi 18 anni, pari a 16. Le valutazioni correnti, quindi, suggerirebbero che l’azionario dei mercati in via di sviluppo sia posizionato idealmente per una forte crescita nel prossimo decennio. Tuttavia, uno sguardo più approfondito potrebbe dirci che i valori non siano così a buon mercato.

Uno sguardo al passato
L’equity emergente, come asset class investibile, ha solo 25 anni anni di storia. I primi fondi dedicati fecero la loro comparsa nel 1988 negli Stati Unti (in Italia il primo comparto emergente arrivò nel 1997). Il benchmark Msci, all’inizio, comprendeva solo dieci paesi. Pesi massimi come la Cina o la Korea del Sud sono stati aggiunti solo nel 1996.

“Nei primi anni, i mercati in via di sviluppo ebbero diversi problemi, dall’iperinflazione in Brasile, alla crisi del peso messicano, fino alla default russo del 1998. Insomma, non era l’asset class più popolare tra gli investitori”, si legge nello studio a cura di Patricia Oey, analista di Morningstar. Il vero rally è infatti partito all’inizio del millenio, grazie a una serie di fattori, in primo luogo la macchina cinese a pieno regime, oltre ai prezzi delle materie prime alle stelle e al boom delle esportazioni.

Tutto ciò si tradusse in rendimenti azionari eccezionali. Dal 2001 al 2010 l’Msci EM ha registrato una performance del 16% annualizzato (con picchi tra il 20 e il 50% dal 2003 al 2007), contro l’1,5% dell’Msci Usa. Crescita del Pil, rendimenti azionari e crescente facilità d’investimento hanno spinto alle stelle i flussi su questa asset class.

“Nel primo decennio del 2000, nonostante i rimbalzi borsistici, il rapporto P/E dei principali benchmark emergenti rimase ragionevole”, continua la ricerca. “Da un lato, questo avvenne perché gli utili (earnings) crescevano più o meno allo stesso passo dei prezzi, ma il vero motore fu la forte aggiunta di titoli a larga capitalizzazione nell’indice. Secondo uno studio di Ernst & Young, dal 2004 al 2010, il capitale raccolto mediante IPO (Initial public offering – Offerta pubblica iniziale) da paesi Bric ha raggiunto 372 miliardi di dollari, in particolare dalla Cina. All’inizio del 2004, le imprese a grandissima capitalizzazione rappresentavano il 63% dell’Msci Emerging Markets, ma entro la fine del 2007, questa cifra era cresciuta al 75%, grazie soprattutto all’aggiunta di queste IPO”. 

Un P/E ragionevole
Le molte spinte positive di cui gli emerging hanno beneficiato nell’ultimo decennio hanno perso però vigore. La Cina sta vivendo un momento di transizione da un modello guidato dagli investimenti a uno trainato dai consumi e le materie prime non bastano più, da sole, a far crescere l’economia. “I flussi dai fondi esteri sono diventati molto più volatili e sensibili e hanno contribuito a far traballare i paesi con fondamentali più deboli. Quasi tutti i paesi in via di sviluppo sembrano destinati a vivere una fase di crescita lenta nel medio termine”, prosegue il report di Oey.  

Rapporto prezzo/utili a 12 mesi dal 1995 al 2013 degli indici Msci Emerging Markets, Msci Usa e Msci All Country World  a confronto.

“Dal 1995 al 2013, l’Msci EM ha mostrato in media un rapporto prezzo/utili pari a 16. In questo lasso temporale ci sono stati periodi di forti oscillazioni; nel giugno 1999 il P/E ha raggunto quota 39, per poi cadere a 11 due anni dopo. Durante gli anni d’oro, dal 2003 al 2007, l’indice è stato scambiato a un P/E tra 11 e 17”, prosegue il report di Oey. “Data la forte volatilità delle azioni emergenti e i profondi cambiamenti che il benchmark ha vissuto in termini di pesi e paesi, confrontare le valutazioni di oggi con quelle passate è un po’ come confrontare pere con mele. D’altra parte è invece ragionevole sostenere che i mercati in via di sviluppo stanno vivendo una fase di difficoltà macroeconomica e che quindi un P/E attorno a 12 non sembrerebbe particolarmente a sconto”.

Il rischio politico
C’è poi da considerare il fattore politico. “Non mi interessa che i mercati emergenti mostrino valutazioni basse, mi interessa molto di più che nel 2014 in paesi come Brasile, Sud Africa, India, Indonesia e Turchia ci saranno elezioni politiche”, ha affermato Asoka Woehrmann, responsabile investimenti di Deutsche Asset and Wealth Management, durante il suo intervento alla Morningstar Investment Conference, evento tenutosi a fine marzo ad Amsterdam (Clicca qui per rivedere le foto e i video dell'evento, tra cui l'intervento di apertura di Sua Maestà la Regina Maxima e la premiazione del Manager of the Year).

“Prima di entrare nei paesi in via di sviluppo solo sulla base delle valutazioni storiche bisognerebbe aspettare i risultati elettorali e capirne le conseguenze”, ha proseguito Woehrmann. “In fondo, le prospettive sono molto più importanti per noi rispetto alle valutazioni; basta pensare all’Europa nel 2011, era a sconto ma nessuno comprava, mancava fiducia nella visione futura”.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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