Dark pools, il lato oscuro della finanza

Sono piattaforme dove si scambiano massicci ordini in forma anonima e il loro peso è in costante crescita. Ma quanto sono pericolose?

Valerio Baselli 05/12/2011 | 09:15
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Hanno un nome che incute subito timore, se ne conosce l’esistenza ma se ne sente parlare molto poco: sono le dark pools (letteralmente “piscine oscure”), ovvero delle piattaforme finanziarie esterne ai circuiti regolamentati. La loro nascita la si può far risalire all’avvento dell’elettronica in finanza, cioè una ventina di anni fa, anche se il loro peso è cresciuto moltissimo negli ultimi 5-6 anni (il settimanale britannico The Economist ha stimato che in Europa circa il 10% dei volumi azionari passa dalle dark pools, quando nel 2005 non si arrivava al 5%).

Non sono tutte uguali
“Dark pool è un termine con cui si indicano meccanismi di negoziazione di strumenti finanziari che fruiscono di scarsa trasparenza”, spiega Barbara Alemanni, docente di Intermediari finanziari dell’Università di Genova e della SDA Bocconi di Milano. “I meccanismi principali sono due: ci sono gli intermediari finanziari che incrociano gli ordini di vendita e di acquisto che ricevono in casa, senza passare da un mercato regolamentato, oppure si tratta di segmenti di mercati borsistici in cui l’ente gestore propone un servizio di incrocio passivo, cioè in cui il prezzo degli strumenti viene determinato altrove, nel caso specifico nei mercati regolamentati”. In entrambi i casi le negoziazioni non sono rintracciabili e avvengono in forma totalmente anonima.

Certo, nel primo caso si tratta di un’attività più tradizionale, che esiste da sempre, anche se fino al 2007 in Europa era vietata. Ora, è consentita a determinate condizioni. Nel secondo caso, invece, si parla di un tipo di piattaforma indipendente, frequentata da grandi investitori istituzionali.

Un tuffo nell’oscurità
Perchè un investitore dovrebbe essere interessato a operare su queste piattaforme? “Innanzittuto occorre considerare l’anonimato”, prosegue la professoressa Alemanni; “alcuni soggetti hanno interesse a non far conoscere al mercato cosa stanno facendo”.

Ma non è tutto qui, anzi. “In realtà il vantaggio più grosso è un altro”, spiega la docente. “Infatti, utilizzando queste piattaforme, gli operatori minimizzano il cosiddetto market impact, uno dei più importanti costi impliciti di negoziazione per gli investitori istituzionali”. In pratica, ogni volta che un soggetto esegue un ordine di acquisto o di vendita superiore alla media di mercato, muove il prezzo in suo sfavore. Questo non succede nelle dark pools, essendo piattaforme non trasparenti dove non si sa quanto si compravende e chi lo sta facendo.

“Il market impact ha un effetto particolarmente importante sugli scambi di titoli poco liquidi”, prosegue Alemanni, “infatti le dark pools sono utilizzate principalmente per trattare gli strumenti a bassa liquidità, diciamo dalle mid-cap in giù”.

I rischi
Il problema principale di questi rami di mercato è l’assenza di trasparenza, che in pratica vuol dire informazioni non disponibili agli operatori. Questo ha come conseguenza che le dark pools influenzano la liquidità e quindi i prezzi delle piattaforme trasparenti, che per forza di cose, non avendo a disposizione tutte le informazioni necessarie, forniscono dei valori non corrispondenti a quelli reali.

Pericolo Flash crash
Con il termine Flash crash si indica il crollo del 6 maggio 2010, quando avvenne un improvviso calo dell’indice Dow Jones, della Borsa di New York, tra le 14:42 e le 15:07 ora locale. “Questo è proprio quello che i regolatori vogliono evitare”, commenta la professoressa Alemanni. “Il problema è che le dark pools possono aumentare la volatilità, in particolar modo quando dietro all’attività di trading non siede un gestore, ma un algoritmo, che compra e vende in automatico sotto certe condizioni (chiamato anche high frequency trading)”.

In fondo è proprio ciò che avvenne il 6 maggio: sistemi di trading automatici e sistemi di gestione del rischio non efficaci, hanno fatto partire una raffica di ordini uno dietro l’altro che in pochissimo hanno fatto crollare il mercato Usa. “Le dark pools possono accentuare questo rischio, ma non lo generano di per sè”,  afferma la docente.

Mifid II, qualcosa si muove
Le autorità europee stanno lavorando alla revisione della normativa Mifid, la quale dovrebbe contenere anche delle norme specifiche sulle dark pools. Ancora non è chiaro quali saranno le nuove regole, ma è certo che si cercherà di illuminare i segmenti più oscuri del mercato.

“Il vero problema è il trading algoritmico”
“Sulle dark pools ci sono una serie di soggetti che con condizioni diverse non negozierebbero, o lo farebbero male”, conclude Barbara Alemanni. “Imporre regole più stringenti solo sulle piattaforme riduce i vantaggi e aumenta i costi di negoziazione e questo potrebbe avere alla fine un impatto negativo sulla liquidità, riducendo sensibilmente gli scambi. Sarebbe molto più utile imporre controlli e regole più ferree sulla governance dei soggetti coinvolti e soprattutto sull’utilizzo di algoritmi per il trading”.

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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