Usa-Cina, tra il precipizio e l’atterraggio

Il primo punto nell’agenda di Obama è il fiscal cliff. A Pechino, il congresso del partito comunista affronta le contraddizioni dello sviluppo.

Sara Silano 08/11/2012 | 14:38
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Il 6 novembre abbiamo fatto le ore piccole per sapere chi avrebbe vinto le elezioni americane; l’8 ci siamo svegliati all’alba per l’apertura del diciottesimo congresso del partito comunista a Pechino. Impossibile seguire le prime ed ignorare il secondo appuntamento, dato che si tratta delle due super-potenze che trainano l’economia mondiale ed entrambe si trovano di fronte a sfide importanti nel 2013.

I conti non tornano
Negli Stati Uniti, Barack Obama ha ottenuto un secondo mandato, battendo il candidato repubblicano Mitt Romney. Guiderà l’America per altri quattro anni, di cui il primo si preannuncia particolarmente critico. La spada di damocle si chiama fiscal cliff (precipizio fiscale), la fine degli incentivi fiscali decisi dell’era Bush e i contemporanei tagli alla spesa pubblica a partire dal 2013. Per Maurizio Novelli, global strategist di Zest asset management, la politica fiscale dovrà necessariamente essere più restrittiva il prossimo anno, con un impatto negativo sul Prodotto interno lordo (Pil) stimato tra l’1,1% (scenario ottimistico) e il 4,5% (scenario pessimistico). Nelle ultime settimane, gli economisti di alcune istituzioni internazionali hanno rivisto al rialzo le previsioni per la congiuntura a stelle e scrisce, portandole in un intervallo compreso tra il 2 e il 3%.

Se queste stime includono l’impatto negativo del fiscal cliff, si domanda Novelli, che tipo di crescita avrebbe avuto l’America nel 2013 se le politiche fiscali fossero rimaste intatte? Infatti, senza fiscal cliff, il Pil avrebbe subito un’impennata tra il 3,1 e il 4,5%, un vero e proprio boom economico. Perché dunque la Federal Reserve è intervenuta con la terza tornata di allentamento monetario? Il 2011 e il 2012 insegnano che le aspettative per la fine della stagnazione sono andate deluse per ben due volte. Gli Stati Uniti non possono mancare una terza volta l’obiettivo, perché i mercati non gradirebbero affatto. Soprattutto, se si manifestassero gli scenari più pessimisti oltreoceano, tutta la congiuntura mondiale ne risentirà.

Riforme, passo obbligato
Lo stesso vale per la Cina, anche se le ragioni sono differenti. Il congresso del partito comunista, che si chiuderà il 14 novembre, deciderà la successione decennale ai vertici, con la nomina del nuovo Primo ministro, del presidente e dei membri del Politburo centrale. In agenda, ci sono tutte le contraddizioni dello sviluppo, di cui i ripetuti scandali sono la punta dell’iceberg. I cittadini mostrano già segni di insofferenza, acuita dal rallentamento economico. D’altra parte, è difficile accettare un tasso del 7,4% quando negli ultimi 33 anni l’incremento medio del Pil è stato del 10%. Pechino ha, per ora, scongiurato un atterraggio pesante (hard landing), ma ulteriori stimoli di politica monetaria potrebbero alimentare bolle nel manifatturiero, nelle infrastrutture e nell’immobiliare con ricadute negative sulla Borsa.

Come ha scritto Alberto Forchielli, presidente dell’Osservatorio Asia, in una nota per Radiocor, lo yuan ha rallentato la corsa verso l’internazionalizzazione, alcuni settori industriali sono colpiti da sovraproduzione e i capitali adesso escono invece di entrare perché il ritorno sugli investimenti è atteso più basso in Cina che altrove. L’alternativa alla speculazione edilizia non esiste più e la bolla sulle case potrebbe esplodere se lasciata alla sola regolamentazione del mercato. La soluzione sembra dunque essere quella di investire all’estero. “Dopo aver tentato di limitare l'afflusso di capitali stranieri (per evitare il surriscaldamento dell'economia e la pressione rialzista sul renminbi)”, dice Forchielli, “la Cina si trova ora nella situazione speculare. Per evitare il doppio timore dei capitali altrui in entrata e dei propri in uscita, l'unica soluzione è l’accelerazione delle riforme e la progressiva liberalizzazione del mercato dei capitali, un compito tanto lineare quanto impegnativo per la prossima dirigenza”.

Jet lag
Date queste premesse, è probabile che dovremo ancora fare le ore piccole, almeno finché l’America non avrà dato un segnale chiaro di aver superato indenne il “precipizio”. Dovremo anche alzarci all’alba per scrutare il cielo di Pechino, dove probabilmente non ci saranno più i tassi di crescita degli anni scorsi e l’ex celeste impero dovrà aprire un nuovo capitolo del suo sviluppo.

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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