Gestione attiva, come misurarla

Il tracking error indica la differenza di rendimento tra indice e fondo, mentre l’active share fotografa le differenze di portafoglio.

Valerio Baselli 07/07/2011 | 09:11
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Con lo sviluppo della gestione passiva, in particolare degli Exchange traded fund, gli investitori sono più attenti alle commissioni dei fondi attivi, perché vogliono essere sicuri che siano davvero meritate. Nel corso degli anni sono stati elaborati diversi parametri per misurare la deviazione di un fondo rispetto al proprio indice di riferimento, in modo da verificare se il gestore si accontenta di seguire l’indice oppure attua una gestione improntata a sovraperformarlo.

Non conta solo la performance
Oltre al tracking error, cioè la differenza di rendimento tra indice e fondo, esiste un’altra misura, forse meno conosciuta, per analizzare il tipo di gestione di un comparto: l’active share, che si concentra sulla composizione del portafoglio piuttosto che sulla performance. Misura, questa, che Morningstar calcola e utilizza nelle proprie analisi e valutazioni. L’idea che sta alla base della “parte attiva” è di quantificare il grado di differenziazione tra il portafoglio del fondo e quello dell’indice, sia a livello di titoli che di pesi. Ad esempio, un titolo che pesa il 5% nel portafoglio del fondo e solo il 3% in quello del benchmark, contribuirà per un 2% alla misura dell’active share del comparto. Quindi, un active share pari al 100% significa che i due portafogli non presentano nessuna affinità; al contrario, una “parte attiva” pari a 0% vorrà dire che i due portafogli coincidono perfettamente. In teoria, il risultato potrebbe anche superare la soglia del 100% nel caso in cui fossero presenti posizioni corte (o short).

I fondi davvero attivi sono pochi
Il concetto di active share è stato inizialmente lanciato da due professori dell’Università di Yale, Martijn Cremers e Antti Petajisto, in un documento di ricerca del 2009. I due docenti hanno studiato il portafoglio dei fondi americani tra il 1980 e il 2003 e sono arrivati alla conclusione che i comparti con la “parte attiva” più elevata tendevano a battere il proprio benchmark, al netto delle commissioni. Insomma, l’evidenza empirica ha dimostrato che una gestione molto attiva era un buon indicatore di sovraperformace. Certo, questo non significa che tutti i fondi che si discostano dall’indice riusciranno a batterlo.

Ma il punto fondamentale, sottolineato da Cremers e Petajisto, è che i fondi con un basso active share, pseudo-attivi, hanno più difficoltà a sovraperformare l’indice, in quanto non riescono a evitare il peso delle commissioni. Questo tipo di fondi è il più numeroso, in quanto, affermano i due accademici, per un gestore è più giustificabile sottoperformare nel breve termine con una posizione molto vicina all’indice di riferimento. E’ invece più difficile giustificare un cattivo risultato con un portafoglio più distante dal mercato di riferimento.

Rischi sempre presenti
È bene sottolineare che i fondi con un active share elevato non garantiscono per forza una sovraperformance. È vero che più le parti attive sono importanti, più il fondo ha buone possibilità di battere l’indice, ma è altrettanto vero che cresce anche il rischio di sottoperformare, specialmente nel breve termine.

Le tabelle sottostanti mostrano, a titolo esemplificativo, che i fondi giudicati da Morningstar qualitativamente elevati, a prescindere dalle perfomance di breve periodo, presentano un active share piuttosto alto, mentre i comparti con un Rating qualitativo più basso presentano una parte attiva più bassa.

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Dati al 30 giugno
Fonte: Morningstar Direct

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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