Asset manager italiani a corto di carburante

Sono troppo piccoli per competere a livello globale. Perdono quote di mercato domestico. E non riescono a stare al passo con i cambiamenti.

Sara Silano 19/08/2010 | 15:21
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E’ ormai caccia aperta al partner “giusto” per Pioneer Investments. Ognuno dice la sua e i pretendenti spuntano qua e là, senza che si arrivi, per il momento, al grande passo. In un articolo pubblicato di recente da Ignites Europe, alcuni analisti hanno indicato in Amundi, la società nata dalla fusione tra l’asset management di Crédit Agricole e Société Générale, la scelta migliore. Qualche settimana fa, era spuntata anche l’ipotesi di Natixis, ma lo scarso radicamento in Italia potrebbe essere un ostacolo per entrambe, dato che la Banca d’Italia preferirebbe una soluzione più presente sul territorio per il secondo operatore domestico per masse gestite. E così sono stati fatti altri nomi, tra cui quello di Eurizon Capital, per un matrimonio al vertice delle sgr, e di Bnp Paribas, che può contare sulla rete di sportelli di Bnl. Ultimamente, è spuntata anche l’ipotesi di uno spezzatino, con la vendita separata della divisione americana.

Intanto, altre società si stanno muovendo. Le ultime, in ordine di tempo, sono state Prima Sgr e Anima Sgr, che hanno deciso di unire le forze a poco tempo di distanza dall’integrazione della stessa Anima con Bipiemme Gestioni. Non sono da escludere operazioni simili nei prossimi mesi, oltre al rilancio di alcune società come Sai Gestioni (ora AcomeA), che è capitanata da Alberto Foà uscito da Anima Sgr di cui era stato il fondatore.

Ancora deflussi
L’industria italiana, tuttavia, continua a perdere masse. A luglio, secondo i dati provvisori di Assogestioni, la raccolta netta è stata negativa per quasi due miliardi di euro e a giugno lo era stata per 1,2 miliardi. In termini patrimoniali, la situazione è migliorata rispetto a un anno fa, in quanto i mercati azionari sono saliti, con conseguente aumento degli asset dei fondi. Purtroppo, però, non si è invertito, se non in minima parte, il trend dei flussi di capitali da parte degli investitori.

Il problema non è solo italiano. In un rapporto sull’industria del risparmio gestito americano (ma molti degli asset manager compresi nello studio sono presenti anche nel nostro paese), Greggory Warren, analista di Morningstar, sostiene che le società potrebbero realizzare risultati deludenti quest’anno, se le Borse scenderanno, proprio perché troppo dipendenti dall’andamento dei mercati, in un momento in cui la raccolta latita.

Le chiavi del successo
Il rapporto mette in luce come i più a rischio siano gli operatori con una gamma di fondi concentrata sull’azionario (tra cui Janus Capital, che è anche presente in Italia). Secondo Warren è molto importante avere un’offerta diversificata per servire gli investitori con prodotti obbligazionari, quando la propensione al rischio diminuisce, e con quelli azionari, quando sale. Ma questo non è sufficiente per avere successo. Serve anche la capacità di trasformarsi con il mutare delle condizioni di mercato.

Warren cita due esempi che ritiene particolarmente significativi, BlackRock e Invesco. Il primo è diventato il più grande gestore al mondo in seguito all’acquisto di Barclays Global Investors, l’anno scorso. Il secondo, dopo aver inglobato la divisione retail dei fondi di Morgan Stanley, ha creato un mix ideale tra produzione e distribuzione. Entrambi, inoltre, sono esposti a uno dei segmenti con i maggiori tassi di crescita, quello degli Exchange traded fund (Etf), hanno relazioni esclusive con alcuni intermediari e una presenza diffusa fuori dagli Stati Uniti.

Cosa non va
Quanti gruppi italiani hanno le caratteristiche che Warren considera indispensabili per competere nel settore del risparmio gestito? Secondo le statistiche di Morningstar, basate sul patrimonio netto, ci sono solo due gruppi italiani tra i primi dieci in Europa (e non nelle prime posizioni) a fronte di una quarantina di operatori. E anche questi sono considerati troppo grandi per essere delle boutique e troppo piccoli per essere player globali. Inoltre, gli operatori domestici sono praticamente assenti all’estero e non sono riusciti a stare al passo con le trasformazioni che hanno investito il mercato, in termini di rinnovamento dell’offerta. Infine, non hanno alcuna esposizione al crescente segmento degli Etf.

Un nodo delicato è rappresentato dal rapporto tra produttori e distributori. Warren indica come uno dei fattori di successo l’avere rapporti esclusivi con gli intermediari, il che non significa però essere controllati da questi ultimi. Al contrario, le società che sono emerse negli ultimi anni sono indipendenti dai grandi gruppi bancari. Sul punto, in Italia siamo ancora in una fase preistorica, perché l’autonomia, salvo rare eccezioni, è solo sulla carta e chi ha intrapreso questa strada la trova irta di ostacoli.

Insomma, senza un cambiamento radicale, la fetta dell’industria italiana è destinata a diventare sempre più piccola, lasciando campo libero agli operatori esteri, per i quali il mercato domestico rimane promettente, considerato che la propensione al risparmio delle famiglie, seppur in calo, resta elevata (13,4%, dato Istat sul primo trimestre 2010).

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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