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l dibattito è arrivato recentemente in Europa, dove sono finiti sotto accusa soprattutto gli Etf che usano swap (operazioni che consistono nello scambio tra il rendimento del patrimonio investito e quello dell’indice), anziché investire nei titoli che compongono il paniere di riferimento. Ma il discorso è ben più ampio e riguarda tutti gli Etf “strutturati”, ossia quelli che impiegano strumenti derivati. L’accusa è di opacità ed è un’accusa pesante, dal momento che uno dei fattori di successo dei replicanti è proprio la trasparenza. Per il momento non c’è stato nessun allarme da parte delle autorità di vigilanza del Vecchio continente sulla loro “pericolosità” nel caso finiscano in mani inesperte. Tuttavia, siccome gli Etf strutturati stanno conoscendo un crescente successo (a Piazza Affari hanno il record di scambi da inizio anno), quello che sta succedendo in America può essere utile per evitare di cadere negli stessi errori che ora stanno portando molti risparmiatori ad uscire da questi prodotti. Inoltre, può aiutare a non fare di “tutt’erba un fascio”, mettendo sul banco degli imputati l’intera industria dei replicanti.
Ad attrarre gli investitori è soprattutto la possibilità di guadagnare di più dell’indice di riferimento quando i mercati salgono (Etf a leva) o di puntare sul ribasso (Etf short). Pochi, però, sanno che questa regola vale su base giornaliera, mentre su orizzonti più lunghi i rendimenti possono deludere le aspettative.
Albert Einstein sosteneva che “la più potente forza dell’universo fosse l’interesse composto”, ma diceva anche che questa potesse lavorare pro e contro di te. In effetti, se abbiamo 100 euro e li mettiamo in un conto di deposito che offre un interesse del 10% annuo, dopo il primo anno avremo 110 euro (100+10), dopo il secondo 121 (110+11), e così via. Dopo sette anni, il conto sarà quasi raddoppiato, con un ritorno medio del 13,55%. In Borsa, però, non funziona così, perché periodi di crescita si alternano a ribassi. Per questa ragione gli Etf a leva e corti diventano un’arma a doppio taglio. Se un giorno l’indice sale del 10% e la leva è due il guadagno è del 20% per cui con base 100 si ottengono 120 euro. Ma se nel secondo giorno l’indice fa -10% non si torna a 100, bensì si scende a 96 euro (la perdita infatti è di 24 euro). Lo stesso calcolo si può fare nel caso si scommetta sul ribasso di un indice.
Dunque, una prima lezione da trarre è che questi Etf non possono essere usati come strumenti di investimento di lungo periodo, ma funzionano generalmente solo su base giornaliera (per le azioni) e mensile (per le materie prime). Più che condannare lo strumento, bisogna quindi deprecare degli usi scorretti e ancor di più la promozione da parte degli intermediari che non tenga conto del reale profilo degli investitori, ma sia dettata esclusivamente da ragioni commerciali.
Una seconda riflessione riguarda invece la struttura più complessa degli Etf di nuova generazione rispetto a quelli tradizionali. Chi investe in questi ultimi, a differenza dei primi, sa che replicano un certo paniere, può verificarne la composizione ed attendersi un risultato sostanzialmente in linea con il benchmark. La crisi finanziaria ci ha insegnato che opacità e sofisticazione spesso sono un moltiplicatore di guadagni per i venditori, ma non per i risparmiatori. Non vorremmo che la storia si ripetesse in un’industria, quella degli Etf, che ha retto alla crisi grazie alla trasparenza e alla semplicità.
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