Commodity, la Cina ha ancora fame

Il Paese tiene alta la domanda di materie prime in un momento in cui calano le scorte.

Marco Caprotti 18/06/2009 | 09:41
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Torna la fame di materie prime. L’indice Msci del comparto nell’ultimo mese (fino al 18 giugno e calcolato in euro) ha guadagnato quasi il 5%, portando a +20% la performance da inizio anno. Il Rogers International Commodity Index (che rappresenta il prezzo di un paniere di materie prime consumate a livello globale) da inizio hanno ha fatto segnare +10%. Nello stesso periodo l’S&P500 è cresciuto del 2,8%.

La commodity più richiesta è stata il rame, un materiale che storicamente viene considerato un barometro dell’andamento dell’economia mondiale. Questo metallo viene utilizzato per svariati scopi: cavi elettrici, apparati per computer e tubature per l’acqua. La domanda di materie prime continua ad essere spinta dalla Cina. Secondo gli ultimi dati forniti da Pechino il Paese, solo

ad aprile, ha acquistato quasi 400mila tonnellate di rame. Il mese precedente erano state 374mila tonnellate (e la cifra era già considerata un record). “Sono settimane che il comparto delle commodity è in fase di Toro”, dice un report della società di consulenza Hackett Financial Advisor. “Nonostante la crisi degli ultimi due anni, i fondamentali del settore non sono cambiati. Il calo dei prezzi che abbiamo visto in passato era dovuto alle vendite generalizzate causate dalla paura”.

Secondo altri analisti i punti forti del comparto sono migliorati. “La domanda resta alta, mentre le forniture stanno scendendo”, spiega Jim Rogers, analista di Structural Commodities. “Il discorso vale soprattutto per i prodotti agricoli. La crisi del credito ha reso difficile fare nuovi investimenti. Gli agricoltori hanno preferito non spendere soldi in nuovi campi”. Il rally più prepotente è atteso proprio nel sotto-comparto delle cosiddette soft commodity: caffè, cacao, cotone succo d’arancia e zucchero. “Sono i prodotti che hanno pagato di più gli effetti della crisi”, spiega uno studio di FuturesOne. “Ma sono anche quelli che registreranno la crescita maggiore.

Del petrolio e dei metalli, tutto sommato si può fare a meno. Ma la gente non rinuncia sicuramente a mangiare e a vestirsi. Il prezzo del caffè, ad esempio, da inizio anno ha perso circa il 20%, ma negli ultimi tempi è risalito, anche perché le piantagioni sono alla fine del ciclo di quattro anni di produzione. Questo significa che sul mercato ci sono pochi chicchi.

Per quanto riguarda le hard commodity, il petrolio continua a testare il livello di 70 dollari al barile.“I costi di produzione dei maggiori giacimenti ancora non sfruttati, come quelli offshore davanti alle coste del Brasile o in Alaska, sono stimati tra i 60 e i 90 dollari al barile”, spiega Dirk Kubish, specialista del comparto materie prime di Julius Baer Asset Management Europe. In soldoni, quindi, per garantire l’approvvigionamento almeno fino al 2030 saranno necessarie ulteriori riserve pari al sestuplo dell’attuale capacità produttiva dell’Arabia Saudita, mentre il prezzo dovrà salire ancora per rendere conveniente l’investimento per gli estrattori.

L’oro, intanto, resta sopra i 900 dollari l’oncia. Segno, dicono gli analisti, che gli investitori stanno cercando una protezione contro un possibile ritorno dell’inflazione. Anche in questo caso a spingere le quotazioni sono stati gli acquisti da parte della Cina. Le riserve del “Regno di mezzo” ammontano oggi a più di mille tonnellate rispetto alle 600 del 2003.

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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