ETF a confronto: Obbligazionari Paesi emergenti in valuta locale

Partendo dalle ricerche Morningstar, abbiamo analizzato i diversi replicanti dedicati ai bond dei mercati in via di sviluppo emessi in moneta locale, tra quelli disponibili agli investitori italiani.

Valerio Baselli 03/05/2023 | 09:20
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Mercati emergenti

Come per molti altri settori obbligazionari, il 2022 è stato un anno difficile per i titoli obbligazionari dei mercati emergenti. Ora, però, il debito emergente in valuta locale è tornato con prepotenza sotto i riflettori. Una tendenza, questa, dovuta da un lato all’appetito per il rischio degli investitori che è aumentato in maniera costante – dopo la pandemia da Covid, lo shock della guerra in Ucraina, gli anni di disinflazione e la politica monetaria distorta – e dall’altro dal fatto che il dollaro, cresciuto senza sosta negli ultimi 15 anni, sembra aver iniziato ad arrestare la sua corsa.

“L’andamento del dollaro USA ha cambiato direzione, i segnali indicano che l’avanzata inarrestabile registrata nell'ultimo decennio inizia a rallentare”, si legge in una nota a cura di Mary-Therese Barton, responsabile obbligazioni mercati emergenti di Pictet AM. A partire dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009, il dollaro è salito incessantemente. Rispetto a un paniere di valute emergenti, tra giugno 2008 e novembre 2022 il dollaro si è apprezzato di quasi il 50% su base ponderata per gli scambi. Il risultato è stato un biglietto verde sopravvalutato di oltre il 10% e valute dei mercati emergenti sottovalutate di oltre il 20%.

La forza del dollaro è stata più o meno universale: è salito rispetto a quasi tutte le valute, sia nei mercati emergenti che in quelli sviluppati. Un’inversione o anche solo un andamento laterale del dollaro dovrebbe sostenere quindi gli asset dei mercati emergenti. 

Inversione di tendenza per il super-dollaro?
“Crediamo che vi siano buone ragioni per ritenere che il dollaro abbia iniziato un declino secolare”, afferma sempre Mary-Therese Barton. “Innanzitutto, vale la pena approfondire il motivo per cui il dollaro è rimasto così forte tanto a lungo. Una delle ragioni è il cosiddetto ‘eccezionalismo’ statunitense. Il dollaro è la valuta di riserva in tutto il mondo, ma è la politica monetaria statunitense che detta il ritmo alle altre banche centrali”.

Allo stesso tempo, i mercati finanziari degli Stati Uniti dominano i capitali globali: “una sovraperformance delle azioni statunitensi attira flussi di capitali che, a loro volta, rafforzano la domanda di dollari”, spiega il gestore di Pictet. “Gli asset statunitensi hanno goduto di un premio di valutazione grazie a questa sovraperformance, in particolare nel settore tecnologico (sensibile ai tassi di interesse), le cui valutazioni avevano beneficiato esageratamente dell'ormai superato regime di tassi bassi”.

C'è poi la questione dell'avversione al rischio. La crisi finanziaria globale aveva spinto gli investitori di tutto il mondo a rifugiarsi nel porto sicuro rappresentato dagli strumenti liquidi statunitensi. La situazione era stata aggravata dalla prima invasione russa della Crimea nel 2014, dalla pandemia di Covid nel 2020 e di nuovo dall'invasione russa in Ucraina lo scorso anno. Tutte insieme, queste crisi hanno dato al dollaro uno slancio inarrestabile; ne è risultata una sopravvalutazione significativa rispetto ai suoi fondamentali. 

Tutto ciò è stato duro da gestire per le economie emergenti, che hanno subito la forza del biglietto verde sotto diverse forme: minori investimenti, maggiori costi del debito, forti pressioni inflazionistiche.

“Negli oltre dieci anni di massima forza del dollaro, la vita è stata particolarmente dura per le società emergenti con debito in valuta estera. Una valuta debole mette sotto pressione gli utili delle società orientate al mercato interno, ma che hanno passività in valuta forte. Tassi di interesse interni elevati comportano costi di finanziamento elevati. Allo stesso tempo, la volatilità valutaria rende complicato il bilanciamento dei flussi di cassa, poiché le società devono far quadrare investimenti di grande portata (spesso denominati in dollari) con flussi in entrata in valute nazionali: lo sforzo per coprire i costi può essere notevole”, prosegue Mary-Therese Barton. 

E questo senza considerare uno degli aspetti più importanti: la politica monetaria. Le banche centrali con scarse disponibilità di valuta forte finiscono spesso per non poter supportare le grandi aziende del Paese, non avendo di fatto il controllo sui capitali. 

“Ora, però, l’enorme doppio deficit (fiscale e delle partite correnti, pari al 7,2% del PIL), il forte indebitamento interno (che mette ulteriori pressioni sulla Federal Reserve già impegnata in una dura lotta contro l'inflazione) e la diminuzione della domanda estera di asset statunitensi, spingono a chiedersi quanto a lungo possa ancora restare alta la valuta”, afferma il gestore di Pictet. 

Le obbligazioni dei mercati emergenti potrebbero dare il meglio di sé con l'inizio dell'inversione del ciclo secolare del dollaro. Inoltre, “il fatto che le valute dei mercati emergenti partano da un livello di sottovalutazione estrema implica che vi sia ampio spazio per una fase di apprezzamento molto lunga e costante”.

“In un simile contesto occorre puntare, per l’obbligazionario, su aree ad alto rendimento come i Paesi emergenti”, si legge in una nota redatta dal team di gestione di AcomeA SGR. “Su questo fronte, largo al segmento in valuta locale, soprattutto in America Latina e Brasile dove c’è stato un forte rialzo dei tassi che ha contribuito a far apprezzare valute come il reais brasiliano, ma anche il peso messicano e il peso colombiano”.

Migliori prospettive macro
“Le aspettative di una Fed meno aggressiva stanno già attirando gli investimenti verso i mercati obbligazionari dei Paesi emergenti, dopo che gli investitori avevano abbandonato l’asset class in seguito ai ricorrenti aumenti dei tassi dello scorso anno”, afferma Nick Eisinger, Emerging Markets Lead Strategist di Vanguard.

“Se a ciò si aggiunge la nostra previsione secondo la quale si assisterà ad un altro anno di offerta obbligazionaria decisamente negativa per quanto riguarda l’obbligazionario dei mercati emergenti, ne deriva uno scenario potenzialmente favorevole ("tecnico") in termini di domanda e offerta per il credito dei mercati emergenti”.

I tassi di crescita dei mercati emergenti dovrebbero inoltre ampiamente migliorare in futuro rispetto ai Paesi del G7 e si prevede anche un rimbalzo dell’economia cinese. Secondo le stime del fondo monetario internazionale, le economie in via di sviluppo nel loro complesso dovrebbero crescere del 3,9% nel 2023 (contro l’1,3% previsto per i mercati sviluppati), del 4,2% nel 2024 (contro l’1,4%) e del 4% nel 2025 (contro l’1,8% sempre per i Paesi sviluppati).

“Con la ripresa della crescita dei mercati emergenti vediamo opportunità soprattutto nelle obbligazioni in valuta locale, un’area in cui siamo stati molto più cauti nel 2022 e alla quale continuiamo ad aumentare l'esposizione”, continua Eisinger.  

Non dimenticare i rischi
Quando si prende esposizione ai mercati emergenti ci sono diversi fattori che dovrebbero essere tenuti in considerazione. Rispetto alle loro controparti sviluppate, le obbligazioni dei mercati emergenti sono più rischiose, tipicamente più illiquide e con maggiori costi di transazione. Insomma, nonostante le prospettive più promettenti, chi investe in obbligazioni dei mercati emergenti deve essere consapevole dei rischi.

“Con l'indebolimento dell'economia statunitense riteniamo probabile una recessione nel 2023 o nel 2024. Di conseguenza, siamo più cauti circa le prospettive di alcuni settori del mercato high-yield dei Paesi emergenti, che di solito sono più sensibili alla crescita degli Stati Uniti rispetto al resto degli altri mercati”, spiega ancora Eisinger di Vanguard.

“In una situazione di questo tipo abbiamo alleggerito il comparto del credito high-yield e investito in obbligazioni investment-grade dei mercati emergenti di qualità superiore, anche se manteniamo alcune posizioni nel settore quando riteniamo che il prezzo rispetto ai fondamentali sia interessante, come nel caso delle obbligazioni sovrane nigeriane ed egiziane”.

Inoltre, pur offrendo rendimenti più interessanti, le obbligazioni dei mercati emergenti si trovano ora a dover affrontare una maggiore concorrenza da parte di altri segmenti obbligazionari, nei quali i rendimenti sono aumentati analogamente, e non da ultimi i titoli di Stato dei mercati sviluppati decisamente meno rischiosi.

L’offerta ETF
Attualmente gli investitori italiani possono scegliere fra cinque Exchange traded fund appartenenti alla categoria Obbligazionari Paesi emergenti in valuta locale. Due di questi sono coperti dall’analisi qualitativa di Morningstar.

Lo SPDR® Bloomberg Emerging Markets Local Bond UCITS ETF e l’iShares J.P. Morgan EM Local Govt Bond UCITS ETF ottengono un Medalist Rating pari a Bronze. Il primo è stato declassato da Silver a Bronze lo sorso 21 marzo, in quanto ad oggi esistono opzioni più economiche, in particolare nel formato dei fondi passivi tradizionali (non quotati).

In entrambi i casi, comunque, secondo gli analisti di Morningstar i benefici composti delle basse commissioni e della diversificazione degli emittenti a livello di portafoglio dovrebbero aiutare a fornire rendimenti superiori alla media della categoria nel lungo termine.

“Sulla carta, la complessità dell’universo obbligazionario emergente giustificherebbe un approccio attivo, in quanto i gestori potrebbero essere in grado di scegliere le scommesse giuste in termini di esposizione ai Paesi e alle valute”, spiega Jose Garcia-Zarate, responsabile ricerca sulla gestione passiva di Morningstar in Europa. “Tuttavia, le scommesse attive sul debito dei mercati emergenti rimangono irte di rischi, mentre un approccio passivo a basso costo e ad ampia base geografica li bilancia nel lungo periodo. Questo si è tradotto in un profilo di rischio/rendimento più stabile per i fondi indicizzati rispetto alla media dei concorrenti della categoria Morningstar e questo probabilmente rimarrà anche in futuro”.

Infatti, i fondi passivi ben diversificati hanno ottenuto buoni risultati nel contesto della loro categoria Morningstar, che comprende anche i prodotti attivi. “In particolare le strategie passive che fanno riferimento a indici con un’inclinazione alla qualità - misurata in termini di rating medio – si sono dimostrate più adatte ad attutire il ribasso e hanno fornito rendimenti più elevati nel lungo periodo”, conclude Zarate.

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

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Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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