Il brivido di paura che ha attraversato gli investitori nei paesi emergenti dopo il fallimento del Venezuela potrebbe essere ingiustificato. Il fremito si è sentito a metà novembre dopo che la International Swap e Derivatives Association ha dichiarato i bond governativi del paese e quelli emessi da Petroleos de Venezuela (PDV, la oil company gestita dallo stato) valgono come carta straccia. Ma i primi tremori si erano avvertiti due settimane prima, quando il presidente del paese, Nicolas Maduro, aveva annunciato la ristrutturazione del debito locale (valutato in circa 60 miliardi di dollari).
Non è da oggi, comunque, che lo stato sudamericano è un osservato speciale della comunità finanziaria internazionale che imputa a Maduro - e al cattivo management di PDV- la recessione economica e la penuria di cibo e medicinali in cui versa il paese. Agli investitori non sono piaciuti nemmeno gli ultimi scandali politici, l’emissione di nuovo debito e la decisione di versare i dividendi di Citgo (la raffineria controllata da PDV) direttamente nelle casse dello stato.
“Il debito venezuelano, in generale, è poco presente nei fondi obbligazionari globali dove la posizione, quando c’è, non arriva all’1% del portafoglio”, spiega Karin Anderson, direttore delle strategie sul reddito fisso di Morningstar che ha analizzato i fondi dedicati ai bond dei mercati emergenti (sono stati presi in considerazione quelli che hanno un Analyst rating, vedi tabella sotto) domiciliati in Usa e In Europa. “Tuttavia pesa di più nei prodotti dedicati ai bond dei mercati emergenti. In particolare in quelli che hanno come benchmark l’indice JPMorgan Emerging Market Bond composto da emissioni governative in euro e dollari. Nei primi 10 mesi del 2017 il debito venezuelano ha rappresentato il 2,5% del paniere.
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