Pensioni, luci e ombre del part-time

Secondo Alberto Brambilla (Itinerari Previdenziali), la flessibilità in uscita è una novità positiva, ma che pone alcuni problemi. Intanto, la spesa pensionistica sale di 4 miliardi.

Valerio Baselli 15/04/2016 | 16:48
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Alla fine, la possibilità di percorrere la via del part-time agevolato in uscita per i lavoratori ai quali mancano meno di tre anni alla pensione è stata firmata dal Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Per approndire, abbiamo già parlato di questa proposta qui e anche qui.

Come spiega una nota del dicastero, costoro potranno concordare col datore di lavoro il passaggio al tempo parziale, con una riduzione dell’orario tra il 40 ed il 60%, ricevendo ogni mese in busta paga, in aggiunta alla retribuzione per il part-time, una somma esentasse corrispondente ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro sulla retribuzione per l'orario non lavorato. Inoltre, per il periodo di riduzione della prestazione lavorativa, lo Stato riconosce al lavoratore la contribuzione figurativa corrispondente alla prestazione non effettuata, in modo da salvaguardare l'intero importo della pensione quando scatterà l'età per ritirarsi definitivamente dal lavoro.

“In un mercato del lavoro ingessato in uscita per le rigidità introdotte dalla legge Monti Fornero, la possibilità offerta ai lavoratori cui mancano tre anni all’ età di pensionamento, che maturano tale età (66 anni e 7 mesi) entro il 31 dicembre 2018, di utilizzare il part-time può essere vista positivamente”, ha commentato in una nota Alberto Brambilla, presidente del comitato tecnico-scientifico di Itinerari Previdenziali e coordinatore della Giornata nazionale della previdenza.

Non per tutti
“In realtà – prosegue la nota – avrei preferito l’adozione della flessibilità in uscita con un anticipo massimo di quattro anni e un correttivo attuariale che riduce la prestazione pensionistica del 12,3% circa (4 anni di anticipo e 35 anni di contribuzione)”.

Secondo Brambilla, il tempo parziale pone infatti tre problemi: “in primis, per il lavoratore che anzitutto dovrà avere il benestare dal datore di lavoro e poi avrà una retribuzione (in ipotesi di tempo parziale al 50%) pari al 70% del suo reddito da tempo pieno e quindi bisognerà vedere se gli basterà. Poi, per le aziende poiché rappresenta un aumento del costo orario di lavoro di oltre il 10%. Infine, i 60 milioni stanziati, se utilizzati per l'intero triennio, potranno soddisfare non più di 25 mila lavoratori, che sono un po’ pochini”.

Pensioni salate
Nel frattempo, oggi l’Istat ha pubblicato oggi i dati relativi alla spesa pubblica per le pensioni di tipo previdenziale in Italia, che nel 2015 è stata pari a 261,5 miliardi di euro, in aumento di 4,1 miliardi (+1,6%). Sul dato dell’anno scorso pesano gli arretrati (2,2 miliardi) per le pensioni erogate a partire dal 2012, pagati alle famiglie dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul blocco delle indicizzazioni.

Da questo totale restano fuori le prestazioni assistenziali, che, seppure in alcuni casi compaiano sotto l'etichetta di “pensioni”, fanno invece parte di un altro capitolo, quello dell’assistenza. L’Istat comunque fornisce dati spacchettati anche per le voci riferite alle pensioni di guerra (604 milioni nel 2015), le prestazioni agli invalidi civili (16 miliardi), quelle ai non udenti (188 milioni), ai non vedenti (1,1 miliardi), nonché le pensioni e gli assegni sociali (4,7 miliardi).

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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