Non c'è solo l'emerging

La regione asiatica è formata anche da alcuni paesi e mercati svluppati che possono offrire qualche garanzia in più agli investitori che non amano prendere troppi rischi. 

Marco Caprotti 23/04/2015 | 10:03
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Non ci sono solo gli emergenti, così come non c’è solo il Giappone. L’Asia, anche dal punto di vista degli investimenti, è formata da diverse nazioni sviluppate poco considerate dai risparmiatori italiani ma che, secondo gli operatori internazionali, offrono buone opportunità di reddito.

Molti, ad esempio, dimenticano che l’Australia fa parte della regione chiamata Asia Pacific. Secondo le stime diffuse dal governo locale il Pil dovrebbe crescere del 2,5% nel 2015, per poi salire al 3,5% negli anni successivi. Nel frattempo, la locale Banca centrale ha deciso di non toccare i tassi di interesse per non frenare un’economia che si basa sulle esportazioni di commodity (soprattutto minerali di ferro) e che potrebbe subire la frenata dei prezzi delle materie prime. Segnali incoraggianti arrivano dal settore immobiliare e dalla riduzione (seppur minima) del tasso di disoccupazione, che si assesta intorno al 6%.

Nella stessa area dell’Australia, gli investitori comprendono anche la Nuova Zelanda. Gli ultimi dati macro hanno evidenziato una crescita del Pil dell’1% rispetto all’anno scorso grazie alla maggiore attività agricola e mineraria, ma anche in virtù della crescita dell’immigrazione che ha inciso positivamente sui consumi. Il tutto all’interno di un quadro di bassi tassi di interesse. Il locale Dipartimento del tesoro ha previsto un deficit commerciale di 334 milioni di dollari (Usa) nell’anno fiscale che si chiuderà a giugno 2015, a causa del calo del prezzo dei prodotti lattiero-caseari (una delle principali attività dell’isola) e della debole inflazione. Per l’anno fiscale in corso Wellington si attende una crescita del Pil del 3,3%.

Le città-stato
Simile alla Cina, ma più occidentale nei gusti e nell’architettura, Hong Kong continua a stupire gli investitori per il suo tasso di crescita. Alla fine dell’anno scorso, il Pil dell’ex protettorato britannico (dal 1997 sotto il controllo di Pechino) ha sfiorato il +3% contro previsioni che non arrivavano al 2%. E questo nonostante le proteste pro-democrazia dei dimostranti di Occupy che sembravano aver bloccato la città-stato. In realtà è stato registrato un aumento dei consumi interni e una diminuzione minima delle spese da parte dei turisti (dati governativi che gli analisti, tuttavia, considerano affidabili). Le autorità prevedono per il 2015 una crescita del Pil del 2,2%. A guidare l’economia è ancora il comparto real estate. A novembre i valori immobiliari hanno toccato i massimi dell’anno, mentre nell’intero 2014 le vendite hanno superato i record del 1996.

L’altra città-stato della regione, Singapore, intanto, deve fare i conti con la deflazione. Per combatterla il governo ha deciso di allentare la politica monetaria tenendo artificialmente il valore del suo dollaro al di sotto di quello delle altre divise. “Questa decisione farà bene ai consumatori ma, nel lungo periodo, rischia di penalizzare le aziende, i profitti e i livelli degli stipendi”, spiega uno studio della società di analisi Thomas White International. Secondo un rapporto della Monetary Authority of Singapore, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere del 3,1% contro il 3% secco del 2014. La situazione della città-stato, comunque, dipenderà in parte dagli sviluppi della situazione economica mondiale e, per certi versi, dalle scelte di politica interna. Il governo ha deciso di ridurre la dipendenza del paese dalla manodopera straniera. Per questo ha introdotto leggi restrittive sulle assunzioni e tasse più alte per i lavoratori esteri con il risultato, però, di aumentare i costi per le imprese. 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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