Meglio ripassare la diversificazione

Nel 2013 ha vinto soprattutto chi ha avuto un portafoglio concentrato sull'equity dei mercati sviluppati. Ma dicono gli operatori, non bisogna farsi condizionare. Conviene avere più asset in portafoglio. Anche perché, nel breve, vince il caso. 

Marco Caprotti 26/02/2014 | 16:33
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Contrordine investitori: la diversificazione non serve. Anzi è dannosa. E’ questa, guardando i listini, la lezione che sembra aver insegnato il 2013. Ma, dicono gli operatori, è meglio non mandarla a memoria.

I risultati dell’anno scorso, tuttavia, sembrano parlare chiaro. L’indice S&P500 delle maggiori aziende Usa l’anno scorso ha guadagnato più del 32%. In Europa il paniere Stoxx 600 è salito del 35%. Nello stesso periodo, asset utilizzati per la diversificazione come le commodity o i bond dei mercati emergenti hanno perso, rispettivamente l’11% e il 5%. Tirando le somme sembra quindi che per massimizzare i rendimenti, gli operatori di mercato avrebbero dovuto avere portafogli concentrati sull’equity delle regioni più sviluppate.

I cattivi consigli del passato (recente)
“Gli investitori hanno sempre la tentazione di farsi sedurre dagli ultimi fenomeni a cui hanno assistito”, spiega uno studio firmato da Lon Jefferies, analista della società di consulenza Advice IQ. “C’è spesso la tendenza a credere che quello che si è appena visto rappresenti la norma anche in futuro. Quindi, se un’asset class di recente è andata male, allora continuerà a farlo”. La storia, però, abbonda di esempi che dimostrano la bontà di una strategia di diversificazione. Fra i più freschi c’è quello del 2008 quando l’indice S&P, nel pieno della crisi scatenata dai mutui subprime (i mutui di scarsa qualità), ha perso il 37%. Una performance che avrebbe fatto piangere un investitore completamente esposto all’equity americano. Se lo stesso operatore, invece, avesse diversificato mettendo il 60% degli attivi in azioni e il resto in bond, la perdita sarebbe stata dimezzata.

“Alcuni investitori abbandonano la loro strategia perché, nel breve termine, non gli dà i migliori risultati in senso assoluto”, continua lo studio. “Non riconoscono i reali benefici nel lungo termine di un portafoglio ben diversificato. Bisogna tenere sempre a mente che, anche quando le cose non vanno bene, qualcuno dei nostri asset potrebbe restare indietro”. Se questo non dovesse succedere, meglio stare allerta. “Se una parte delle nostre holding non ha il segno meno, ci sono serie possibilità che gli investimenti non siano sufficientemente diversificati”.

Il ruolo del caso
Vanno poi considerati anche altri aspetti. Molti investitori, ad esempio, non si rendono conto di quanto la fortuna (o il caso) sia presente nei mercati finanziari, specialmente nel breve periodo. Per scoprirlo Peter Shapiro, analista azionario Usa di Comgest, ha fatto diverse simulazioni prendendo ad esempio varie strategie di investimento. Il risultato? “Più l’intervallo di tempo in cui si valuta l’investimento diventa breve, meno è probabile notare delle sovraperformance”, spiega in una nota. “I brevi periodi equivalgono, sostanzialmente, al lancio di una monetina. Dopo tre anni, un periodo di valutazione standard per molti investitori, le probabilità di osservare una sovraperformance da parte del gestore sono dell’80%. Anche se una strategia può fare bene nel lungo periodo, sperimenterà fasi più brevi di performance inferiori alla media. Questo fenomeno è la regola più che l’eccezione. Chi si focalizza sull’esito di un evento piuttosto che sul processo attraverso cui si è deciso, la sua scelta sarà dettata dalla casualità. Nel tempo, concentrarsi sul processo rappresenta una scelta migliore per arrivare al successo di quanto non sia quella di pensare solo ai risultati”.

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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