Tutto gira intorno alla Fed

Le politiche monetarie americane sono il driver reale nei movimenti delle valute emergenti e dei loro mercati. Soprattutto di quelli molto dipendenti dagli investimenti esteri.  

Valerio Baselli 20/11/2013 | 11:13
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La Banca centrale più potente tra quelle di tutti i paesi in via di sviluppo? Risiede in occidente ed è la Federal Reserve. Sono infatti le decisioni di Washington quelle che più incidono sulle politiche monetarie delle economie emergenti, al centro delle cronache negli ultimi mesi a causa dell’alta volatilità delle loro divise.

Tapering, sì o no
Ad accendere la miccia è stato l’annuncio da parte della Fed a maggio di una possibile riduzione del programma di acquisto titoli di Stato (il cosiddetto tapering). “Le classi di attivo che più hanno beneficiato della politica espansiva della Fed, sono state anche le più colpite dall’annuncio di una potenziale variazione nella politica stessa”, afferma Matteo Cassiani, servizio gestioni patrimoniali di Monte dei Paschi di Siena. “Le valute emergenti, in particolare quelle dei paesi più vulnerabili in termini di fondamentali, sono state particolarmente penalizzate nel corso della prima parte dell’estate, da maggio ad agosto. Brasile, India, Indonesia, Sud Africa e Turchia hanno visto le proprie divise scendere tra il 13 ed il 23% contro il dollaro Usa fino al mese di agosto, per poi recuperare parte del terreno perduto nelle ultime settimane”.

Tutte queste economie presentano alcune caratteristiche in comune e hanno similitudini anche con quanto avvenuto durante precedenti crisi finanziarie, come quella asiatica del 1997. “Le principali cause, fonte di timore per gli investitori, sono rappresentate da elevati deficit di partite correnti e forti cali dei mercati, azionari ed obbligazionari. Allo stesso tempo, un incremento significativo dei tassi di interesse in termini reali (cioè al netto dell’inflazione) e il calo delle riserve ufficiali, rispetto al livello di indebitamento a breve termine, sono segnali di attenzione per gli operatori internazionali”, prosegue Cassiani. Il problema che affrontano questi ultimi, infatti, è quello di riuscire a prevedere quale economia sarà più colpita di altre o se possa verificarsi un contagio, cioè un movimento negativo simile per paesi che presentano situazioni paragonabili. A questo si aggiungono le ondate di panico: ribassi magari non giustificati dai fondamentali, ma che spingono i mercati in una spirale negativa.

Il peggio è passato
Nel corso del secondo e terzo trimestre dell’anno, le Banche centrali di alcuni paesi, più colpiti di altri dalla fuoriuscita di capitali, hanno innalzato i tassi di interesse al fine di contenere la svalutazione delle rispettive divise. E’ il caso, ad esempio, di Brasile, India e Indonesia. Quest’ultima ha agito anche intervenendo direttamente sul mercato dei cambi, con l’utilizzo delle proprie riserve valutarie. Gli interventi, comunque, hanno avuto scarso successo e le valute hanno subito significativi deprezzamenti.  

Tra maggio e agosto di quest’anno la Banca centrale indonesiana ha utilizzato circa il 20% delle proprie riserve ed ha aumentato i tassi d’interesse quattro volte (+1,5% in totale) per cercare di difendere la rupia, ma la divisa ha perso comunque circa il 15% del suo valore. “Questo è un esempio di quanto provocato dalla fuga degli investitori dai mercati emergenti, in particolare dalla componente obbligazionaria, che avevano beneficiato di una progressiva attenzione dal 2008 in poi”, commenta Cassiani. “Il doppio effetto combinato di un rialzo dei tassi di interesse nei paesi sviluppati, per attese di un minor flusso di acquisti da parte della Fed, e l’incremento degli spread tra le obbligazioni emergenti e i titoli di Stato Usa, per l’aumentata percezione del rischio da parte degli investitori, ha penalizzato i corsi degli strumenti di debito dei paesi in via di sviluppo. Tra maggio e agosto si è assistito a continui riscatti dai prodotti specializzati sui bond emergenti: la conseguenza è stata un calo dei corsi pari a circa il 10% rispetto ai massimi di inizio maggio. Le aspettative per un allontanamento nel tempo dell’uscita dal quantitative easing hanno dato, dall’inizio di settembre, un po’di sollievo agli operatori, dando vita a un rally del 7% circa dai minimi”.

In genere, però, gli interventi sui mercati dei cambi sono stati marginali rispetto a quanto avveniva in passato. Al di là dell’aspettativa dei banchieri centrali su un’inversione del trend di vendite delle proprie valute o titoli di Stato, probabilmente ha giocato un ruolo importante la minor enfasi verso questi strumenti di gestione della politica monetaria, anche alla luce del fatto che alcune economie presentano effettivamente alcuni problemi di competitività internazionale. Un tasso di cambio in deprezzamento può permettere di controbilanciare, almeno nel medio termine, questo svantaggio. “Per l’inizio del prossimo anno, quindi, le attese sono per una sostanziale stabilizzazione della situazione, con la prosecuzione della tendenza in atto nei recuperi di alcune divise. La principale Banca centrale per gli emergenti, tuttavia, rimane la Federal Reserve: le decisioni di quest’ultima avranno importanti riflessi sui mercati in via di sviluppo, così come è avvenuto nel corso di quest’anno”, prosegue l’analista di Mps.

Mosca e Pechino
I mercati emergenti, in particolare quelli azionari, possono rappresentare ancora un interessante profilo di rendimento potenziale a fronte della volatilità, che è comunque da tenere bene in considerazione per investimenti di questo tipo. “Tra i listini che attualmente preferiamo ci sono quello russo e la Borsa cinese”, afferma Cassiani. “Cina e Russia presentano attualmente degli avanzi di partite correnti con necessità limitate di finanziamenti dall’estero, per la scarsa entità del debito in scadenza o del deficit di bilancio da finanziare. Hanno anche ingenti riserve valutarie, che potrebbero assorbire, in maniera più agevole rispetto ad altre economie, eventuali fuoriuscite di capitali finanziari”.

“Infine, dal punto di vista della liquidità, offrono garanzie all’investitore in termini di profondità e spessore dei volumi scambiati, qualità presenti raramente, ad esempio, tra i mercati di frontiera. Su questi ultimi, come su altre Borse in via di sviluppo, non possiamo prevedere, a oggi, difficoltà di finanziamento. Tuttavia riteniamo che potrebbero trovare più costoso finanziare la propria crescita qualora il tapering della Fed diventasse realtà”.

 

 

 

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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