Unione bancaria, i numeri non sono d'accordo

Radunare sotto un unico ombrello regolamentare istituti finanziari molto diversi fra loro non sarà facile. E non è detto che serva a evitare altre crisi. 

Marco Caprotti 06/12/2012 | 15:34
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Si fa presto a parlare di Unione bancaria europea. Non è facile, infatti, mettere d’accordo attraverso leggi e regolamenti realtà tanto diverse sia dal punto di vista delle capitalizzazioni di mercato che dei bilanci. Una delle più convinte sostenitrici di questa soluzione per far fronte alle crisi del debito ed evitarne di nuove è il presidente del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, secondo cui non si tratterebbe solo di vigilanza con il ruolo centrale della Bce ma, più in generale, del meccanismo dei rapporti fra gli istituti di credito e del sistema di garanzia dei depositi. “Non deve avvenire che il processo di unione bancaria sia frammentato”, ha spiegato Lagarde. “Deve esserci chiarezza sul calendario, sulle misure, sulla coerenza del processo. Questo è necessario per una chiarificazione del paesaggio nell’Eurozona e per spezzare il circolo perverso tra crisi del debito sovrano e crisi bancaria”.

Un quadro complesso
Secondo i dati raccolti dall’ufficio studi di Mediobanca, le quotazioni dei venti principali istituti di credito del Vecchio continente sono scese del 21% da fine 2009 al 27 novembre di quest’anno. Quelle delle big italiane, invece, sono crollate del 48%. Nel gruppo delle grandi europee figurano anche due italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit, che hanno perso il 48%. E se negli ultimi 11 mesi la prima ha lasciato sul terreno un 2,4%, la seconda ha invece recuperato terreno, guadagnando il 63,7%. Una performance seconda solo al +83% di Lloyds. I soli istituti con variazioni positive dal 2009 sono Danske bank (+15,3%), Commerzbank (+14,3%), Royal bank of scotland (+8,8%), Deutsche bank (+2,3%) e Lloyds (+1%). L’inglese Hsbc continua a essere l'istituto più capitalizzato (141 miliardi), seguito a notevole distanza da Santander (59,6 miliardi). Ultima è la tedesca Commerzbank con 8 miliardi. 

Quanto all’esposizione delle venti maggiori banche europee sui titoli di Stato italiani, l’ammontare è sceso a fine giugno a 174 miliardi dai 196,4 miliardi di un anno prima, di cui 121,4 miliardi in portafoglio alle due leader italiane (103 miliardi un anno fa). In totale gli istituti europei detenevano a fine giugno circa 276 miliardi in titoli di stato emessi dai cinque paesi denominati Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), contro 325 miliardi a fine giugno 2011. L’esposizione rappresentava il 23,7% dei mezzi propri complessivi, con una situazione più gravosa per gli istituti italiani e spagnoli: 166,9% del patrimonio netto per Intesa Sanpaolo, 66,7% per Unicredit, 68% per Bbva, di poco inferiore al 60% per Santander. Le più vistose diminuzioni hanno riguardato i titoli di Stato italiani (-22,5 miliardi) e greci (-19,7 miliardi). Questi ultimi in particolare, dice lo studio di Mediobanca, sono quasi completamente scomparsi dai bilanci per effetto di svalutazioni e cessioni.

Il primo semestre 2012 ha visto le banche aumentare le svalutazioni dei crediti di oltre 400 milioni, con un incremento dell’1,1% dal dicembre 2011 a 548,5 miliardi, passando dal 14% al 15,1% dei ricavi. Le due italiane si sono mosse in linea con il resto d’Europa. Unicredit ha registrato la maggiore massa di crediti dubbi lordi (77,7 miliardi contro 72,5 miliardi nel 2011). Peggioramento anche per Intesa Sanpaolo, salita a 45,6 miliardi dai precedenti 41,8 miliardi. Le banche inglesi hanno ridotto le svalutazioni dei crediti in modo vigoroso (-25,1% in aggregato), mentre i restanti istituti hanno segnato una progressione pari al 22,7%. Deciso l’incremento di Nordea (+24,4%), così come la riduzione di Lloyds (-12% grazie alla significativa cessione di portafogli di crediti dubbi). I primi nove mesi dell’anno hanno mostrato una decisa contrazione dell’utile netto delle big europee, sceso del 37,8% rispetto ai 54,2 miliardi dello stesso periodo del 2011. Solo sei istituti su diciotto hanno registrato un marginale miglioramento dell’utile netto.

Il crollo in prospettiva
Resta poi da capire se tutti gli istituti sono abbastanza equipaggiati per poter resistere a un evento eccezionale, come il crollo dell’area euro. Un’unione troppo stretta, in quel caso rischierebbe di trasformarsi in un effetto domino che, partendo dagli istituti più deboli, farebbe crollare anche tutti gli altri, a prescindere dalla buona volontà della Bce. “Dipende da che prospettiva si affronta la questione”, spiega Erin Davis, analista del comparto bancario di Morningstar. “Se si parla solo di un’uscita della Grecia, allora possiamo dire che le banche sono riuscite a preparare bilanci abbastanza solidi per reggere il colpo. Se invece l’abbandono di Atene porta gli investitori a mettere in dubbio la tenuta della Spagna o, peggio, dell’Italia allora la situazione si complica, vista la presenza, nonostante le riduzioni effettuate, di debito governativo dei due stati nei forzieri delle banche. Non avrebbero le fondamenta abbastanza solide per reggere il colpo”. 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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