Il clima può far bene alla Borsa

Ecco gli effetti che il meeting di Copenhagen può avere sulle aziende quotate.

Marco Caprotti 03/12/2009 | 16:27
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Le Borse si preparano alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Copenhagen. Le decisioni che saranno (o non saranno prese) nel corso degli incontri che si terranno dal 7 al 18 dicembre al cosiddetto Cop5, infatti, potrebbero avere un profondo impatto sul modo di fare business delle aziende e, di conseguenza, sui costi che dovranno affrontare e sulle loro possibilità di profitto. Fra gli obiettivi dei 192 Paesi che si siederanno al tavolo delle trattative c’è anche quello di trovare un accordo per quanto riguarda i punti principali di un protocollo post-Kyoto, di definire i nuovi target di riduzione delle emissioni di carbonio per le nazioni industrializzate, di studiare il contenimento dei gas serra per i Paesi più poveri e lo stanziamento di fondi per aiutare quelli

in via di sviluppo a ridurre le emissioni e adattarsi ai cambiamenti climatici.

Il meeting si preannuncia tutt’altro che facile. “Nonostante i notevoli progressi compiuti in vista del summit di Copenhagen, in particolare per quanto concerne l’adattamento ai cambiamenti climatici, la tecnologia e lo sviluppo delle capacità, devono ancora essere affrontate sfide importanti”, dice Barbara Evans, analista esperta di sostenibilità di RCM (società del gruppo Allianz Global Investors). “Un aspetto critico dei negoziati riguarda gli obiettivi a medio termine di riduzione delle emissioni per i Paesi industrializzati. E’ certamente positivo che le nazioni sviluppate abbiano già stilato un elenco pressoché esaustivo di intenzioni. Ma in molti casi i tagli richiesti dagli esperti non sono stati effettuati”. Attualmente la Norvegia è l’unico Paese al mondo ad avere assunto l’impegno di ridurre le emissioni rispettando obiettivi che superano le raccomandazioni degli esperti.”Sarà necessario fare chiarezza sulla questione del sostegno finanziario richiesto dai Paesi in via di sviluppo per intraprendere ulteriori azioni finalizzate a contenere l’aumento delle emissioni e ad adattarsi agli inevitabili effetti dei cambiamenti climatici” continua l’analista.

Per quanto Cina e India abbiano compiuto notevoli passi avanti negli ultimi mesi, in particolare impegnandosi a utilizzare nuove tecnologie ambientali, secondo gli osservatori è necessario che i Paesi industrializzati si assumano impegni di finanziamento chiari e sostanziali per giungere a un accordo con le economie emergenti. Attualmente, non è confermata nessuna cifra sul tavolo delle trattative. Sebbene i negoziati avviati a Bali nel dicembre del 2007 siano continuati e gli sforzi compiuti finora abbiano portato i Paesi del G8 a concordare l’obiettivo di contenere l’innalzamento della temperatura globale entro i due gradi centigradi, mercati emergenti come la Cina (il maggiore produttore mondiale di gas serra nel 2008) saranno pronti a fare la propria parte solo se le nazioni industrializzate dimostreranno il loro impegno a ridurre sensibilmente le emissioni nel medio periodo. “Decisiva, in particolare, sarà la posizione degli Stati Uniti”, spiega la Evans. “La mancata ratifica del Protocollo di Kyoto nel 1997 non dovrà diventare un ostacolo al tavolo dei negoziati”.

In caso di successo del summit si arriverebbe alla definizione di un accordo quadro che potrebbe tradursi in impegni vincolanti dopo Copenhagen e che farebbe sentire i suoi effetti già a partire dall’anno prossimo. “Gli stati e le imprese torneranno a competere per definire gli standard tecnologici applicabili alle soluzioni a basso impiego di carbonio” dice l’analista di RCM. “Proseguirà, inoltre, la divisione tra crescita economica ed emissioni di gas serra. Le politiche interne sui cambiamenti climatici lasciate in sospeso riceveranno la spinta necessaria per essere definitivamente approvate”. Se le cose, al contrario, dovessero andare male, una parte del mondo imprenditoriale potrebbe esitare a stanziare massicci investimenti in conto capitale a causa dell’incertezza sul costo futuro delle emissioni di gas serra. “Non sarebbe, però, il capolinea”, concede l’esperta di sostenibilità. “Se anche non si raggiungesse un accordo-quadro a dicembre, riteniamo che non sarebbero annullati i significativi impegni che molti Paesi hanno già assunto singolarmente per ridurre le emissioni”.

Per quanto riguarda la Borsa, secondo l’analisi di RCM, in una prospettiva di lungo termine, l’eventuale successo del summit di Copenhagen avvantaggerà chi fornisce soluzioni, (le aziende che lanciano sul mercato nuove tecnologie pulite), e le società che per prime adotteranno tali tecnologie. “Alla prima categoria appartengono le aziende produttrici di una vasta categoria di beni, dalle batterie per i veicoli elettrici ai sistemi di supporto per le smart grid (le reti elettriche interattive che migliorano l'efficienza energetica), passando dai biocarburanti e arrivando fino alle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio”, continuano da RCM. “Una maggiore enfasi sui cambiamenti climatici, probabilmente rilancerà anche le aziende che forniscono energia eolica, solare e idroelettrica. Si aprirà inoltre un mercato per la tele-lettura, impiegata per misurare l’efficienza energetica. I primi utilizzatori di questi sistemi sono quelli che hanno investito con largo anticipo le risorse per mitigare il rischio di un ribasso degli utili causato dal futuro aumento dei costi operativi, tra i quali quello del carbone”. Al contrario, le prospettive appaiono meno rosee per quelle società che impiegano processi ad alta intensità energetica facendo ricorso a combustibili fossili. “Il carbone, in particolare, risentirà degli sforzi messi in atto per ridurre le emissioni di CO2, mentre saranno favorite le fonti combustibili più pulite come il gas naturale”.

Fra chi osserva con particolare attenzione quello che succederà nella capitale danese ci sono anche le aziende alimentari (fra cui una pattuglia di quotate a Piazza affari). “Nel lungo periodo beneficeranno anche loro dell’utilizzo di sistemi di produzioni più puliti”, spiega uno studio firmato da Ben Johnson, analista di Morningstar. “Nel frattempo però dovranno fare i conti con i costi di riconversione e con quelli energetici delle fonti tradizionali che potrebbero salire”. Spese che, inevitabilmente, si trasferirebbero sul prezzo dei prodotti alimentari.

Secondo un rapporto dell’America Farm Buerau, per rientrare delle spese le aziende dovrebbero, ad esempio, diminuire le aree coltivate. Un elemento che contribuirebbe ancora di più all’impennata dei prezzi. Senza contare la concorrenza da parte di quei Paesi che, in un modo o nell’altro, continuerebbero a usare liberamente le fonti tradizionali. “Questa battaglia potrebbe essere combattuta dalle società più innovative come Monsanto o Dupont che hanno già in cantiere sementi che, per crescere, richiedono un minore uso di energia e fertilizzanti”, conclude Johnson.

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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