Le riforme delle pensioni

Valerio Baselli 13/05/2008 | 17:23
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Negli ultimi vent'anni, il sistema italiano ha subito un cambiamento radicale, che si può riassumere in cinque tappe principali.

La rivoluzione degli anni ‘90
Tutto iniziò nel 1992, con la Riforma Amato. Questa si poneva lo scopo di stabilizzare il rapporto tra la spesa previdenziale e il Prodotto interno lordo, introdurre forme di previdenza complementare e integrativa, mantenere e garantire un adeguato trattamento pensionistico obbligatorio per tutti. La contribuzione minima per la pensione di anzianità fu elevata da 15 a 20 anni di contributi e l’indicizzazione delle pensioni slegata dalla scala mobile salariale e agganciata all’indice dei prezzi al consumo (inflazione) fornito dall’Istat.
Successivamente ci fu la Riforma Dini del 1995, la quale recepì un accordo siglato tra governo e parti sociali nello stesso anno. Il sistema di calcolo previdenziale passò così dal criterio retributivo (media delle retribuzioni negli ultimi 10 anni di lavoro) al sistema contributivo, basato sull’effettivo ammontare di contributi versati dal lavoratore durante la propria vita lavorativa. La previdenza complementare venne disciplinata mediante l’avvio dei fondi pensione.

La terza tappa del lungo processo di trasformazione dell’impianto pensionistico italiano è stata la Riforma Prodi del 1997, che in sostanza modificò l’impianto della riforma Amato del 1992, adeguandolo con gli accordi stabiliti tra governo e sindacati e con l’esigenza di riordinare i conti pubblici, al fine di garantire l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea. La riforma Prodi si caratterizza per l’inasprimento dei requisiti d’età per l’ottenimento della pensione di anzianità, per l’incremento dell’onere contributivo dei lavoratori autonomi, per l’equiparazione delle aliquote contributive dei fondi speciali di previdenza e l’eliminazione di alcune condizioni riconosciute ai lavoratori durante il periodo di transizione al sistema contributivo.

Gli aggiustamenti degli anni 2000
Più tardi, nel 2004, ci fu la legge delega n. 243 (comunemente detta riforma Maroni) e il decreto legislativo n. 252 del 2005 approvati dal governo Berlusconi. Questi interventi possono essere considerati come gli ultimi tasselli del processo di riforma iniziato nel 1992. Obiettivo di fondo è stato quello di assicurare al sistema pensionistico una sostenibilità finanziaria, obiettivo al quale per intervento sindacale si è affiancato quello di assicurare una maggiore equità nel sistema attraverso una armonizzazione dei diversi regimi pensionistici. In particolare l’innalzamento dell’età anagrafica e/o contributiva per accedere al pensionamento di anzianità è stato spalmato tra il 1996 e il 2008, mentre il nuovo sistema di calcolo contributivo è stato applicato integralmente ai soli lavoratori assunti dopo il 1995 e pro quota per i periodi di lavoro successivi al 1995 ai lavoratori con meno di 18 anni di contribuzione prima del 1996.

Il Salva-Italia
Infine, arriviamo all’ultimo, e forse più doloroso, passo: il Decreto milleproroghe approvato nel dicembre 2011 (e in vigore dal primo gennaio 2012) dal governo Monti, in cui si trova la Riforma Fornero. In una situazione di emergenza, la spesa previdenziale è stata, come sempre, la prima ad essere riformata. Il Decreto prevede il graduale innalzamento dell’età pensionabile, portata a 66 anni per gli uomini e le dipendenti pubbliche e a 62 anni per le lavoratrici nel settore privato. Per queste poi si salirà di sei mesi all’anno a partire dal 2013 fino a raggiungere i 66 anni nel 2016. Inoltre, il metodo di calcolo retributivo è stato definitivamente abbandonato e il contributivo è stato esteso a tutti. Il punto più discusso della Riforma ha riguardato l’indicizzazione dell’assegno pensionistico. Infatti, il Decreto ha stabilito che per gli anni 2012 e 2013, alle pensioni superiori ai 1.441,58 mensili non verrà corrisposto l’adeguamento al costo della vita.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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