Una bussola nella giungla delle pensioni

Fondi aperti, negoziali o Pip. Cosa c’è da sapere per chi sceglie di affidarsi al secondo pilastro, tra paletti e agevolazioni.  

Valerio Baselli 24/01/2014 | 10:02
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Punti chiave

- Chi vuole integrare la pensione pubblica ha tre scelte: fondo negoziale, aperto oppure Pip.

- L’adesione ai Pip è sempre a carattere individuale a differenza dei fondi pensione che possono essere ad adesione collettiva.

- Se il lavoratore rimane disoccupato per un certo periodo di tempo può riscattare parte di quanto versato nel fondo pensione.

Del doman non v’è certezza, diceva il poeta. E poche sicurezze hanno i lavoratori italiani quando pensano alla loro pensione pubblica, una volta l’unica su cui contavano. Le varie riforme  e i conti non proprio a posto dell’Inps, dovrebbero infatti spingere verso gli strumenti di previdenza complementare, come integrazione del sempre più magro assegno pubblico (clicca qui per approfondire).

Eppure, statistiche Covip alla mano, a oggi solo un lavoratore su quattro aderisce a qualche forma di pensione privata. Uno dei motivi potrebbe essere il complesso schema regolatorio che governa i tre principali strumenti del secondo pilastro.

Fondi pensione negoziali
I fondi negoziali, detti anche chiusi, sono istituiti sulla base di accordi tra le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali di settori specifici: l’adesione a questi fondi è riservata a specifiche categorie. I principali sono Cometa per i metalmeccanici, Fonchim per i chimici, Fonte per i lavoratori del commercio e turismo, Perseo per i dipendenti pubblici.

Il principale vantaggio di questo strumento, rispetto agli altri, è che il datore di lavoro è obbligato a versare a sua volta un contributo alla forma pensionistica complementare alla quale ha aderito il dipendente. Ciò consente di aumentare i versamenti e, a parità di altre condizioni, di ottenere una pensione complementare più alta. Chi, invece, non può aderire a una forma collettiva, perché il suo contratto non lo prevede, ha altre due possibilità.

Fondi pensione aperti
Sono forme pensionistiche complementari istituite da banche, assicurazioni, Sgr e Sim. Possono essere ad adesione individuale, su iniziativa del singolo, o collettiva (l’azienda sigla un contratto con un fondo pensione aperto per i suoi dipendenti). Nel caso di adesione individuale, l’aderente non beneficia del contributo del datore di lavoro, in caso di adesione collettiva invece può usufruire di questo vantaggio.

Quando si sceglie un fondo pensione (aperto o negoziale), si devono prendere fondamentalmente tre decisioni.

- La percentuale del proprio stipendio lordo da versare al fondo.

- La linea d’investimento (azionaria, obbligazionaria, bilanciata, garantita, che di solito può essere cambiata annualmente).

- Se destinare o meno il Tfr (Trattamento di fine rapporto) al fondo oppure lasciarlo in azienda. Si può decidere anche in un secondo momento di destinare alla previdenza complementare il Tfr futuro; in questo caso, il montante maturato fino a quel momento resta accantonato presso il datore di lavoro e sarà liquidato alla fine del rapporto.

Piani individuali pensionistici
I Pip sono forme pensionistiche complementari istituite dalle imprese di assicurazione. La differenza con i fondi pensione sta nel fatto che l’adesione è sempre a carattere individuale e ciò comporta dei vantaggi come la possibilità di interrompere (e poi eventualmente riprendere), il versamento dei premi prestabiliti senza che il contratto si interrompa o venga penalizzato.Chiunque può aderire ai Pip, anche casalinghe e studenti che non hanno posizioni previdenziali aperte con il sistema pubblico. Le condizioni contrattuali sono uguali per tutti i contratti emessi dalle varie compagnie assicurative e si differenziano tra loro per i costi e per il tipo di rendimento.

In generale, i Pip sono più flessibili ma anche molto più costosi. Dal punto di vista fiscale, invece, vengono trattati come i fondi pensione.

Il nodo Tfr
È importante sottolineare che una volta scelto di destinare il Tfr a qualche forma di previdenza complementare non si può più tornare indietro. Si può cioè cambiare fondo pensione, ma non si può rimetterlo in azienda (questo è uno dei punti critici che frenano le adesioni). Altro punto che non piace ai lavoratori è che il fondo pensione liquidi alla fine della vita lavorativa al massimo il 50% della posizione, obbligando l’aderente a ricevere la restante metà sotto forma di rendita. Chi lascia il Tfr in azienda, invece, lo riceve tutto subito sotto forma di liquidazione.

Esistono tuttavia delle importanti eccezioni: se il lavoratore rimane disoccupato per più di 12 mesi, può riscattare fino al 50% della somma maturata nel fondo pensione. Se invece il periodo di disoccupazione supera i 48 mesi, è possibile farsi anticipare fino al 100% del capitale. La stessa opportunità è offerta a chi rimane invalido in maniera permanente o deve affrontare delle spese mediche per gravi motivi di salute. Chi acquista la prima casa (per sé o per i figli) o deve effettuare degli interventi di ristrutturazione edilizia, invece, può ritirare in anticipo sino al 75% dei soldi investiti, purché l’adesione al fondo pensione o al Pip sia avvenuta da almeno otto anni. Infine, sempre per chi ha almeno otto anni di versamenti alle spalle, è anche possibile ritirare sino al 30% della somma maturata per qualsiasi ragione. 

Agevolazioni fiscali
Le limitazioni, inoltre, sono bilanciate da una serie di agevolazioni fiscali. La previdenza complementare, infatti, rappresenta un’opportunità di risparmio cui lo Stato riconosce un trattamento speciale. Per quanto riguarda la contribuzione, è prevista infatti la deducibilità dei contributi a carico del lavoratore e a carico dell’azienda fino al limite massimo annuale di 5.164,57 euro.

La parte imponibile della prestazione pensionistica erogata in forma di capitale è soggetta a una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15%, ridotta di una quota pari a 0,30% per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione, con un limite massimo di riduzione di sei punti percentuali. In pratica, chi aderisce per almeno 35 anni, pagherà il 9% di tasse sulla parte liquidata a fine carriera, contro il 27% da pagare sul Tfr lasciato in azienda (23% sotto i 15.000 euro).

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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