Settore ai raggi X: lusso

La crescita esponenziale del mercato asiatico pone le big del settore di fronte al bivio tra espansione del fatturato e tutela del marchio.

Francesco Lavecchia 20/04/2011 | 09:29
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La recente acquisizione di Bulgari da parte della famiglia Arnault, proprietari del gruppo Lvmh, ci porta a fare il focus sul settore del lusso. Tale settore comprende un portafoglio di prodotti molto diversificato, dai gioielli agli orologi, dall’abbigliamento agli accessori, fino ai ristoranti e ai resort. Il minimo comune denominatore fra loro è da un lato (ossia per il consumatore) il prestigio della marca, l’esclusività del prodotto e l’esperienza emozionale dell’acquisto; dall’altro (produttore) l’elevato valore aggiunto. Grazie  alle caratteristiche distintive di questi beni, l’industria riesce ad applicare un elevato extraprezzo e chi ha un elevato vantaggio competitivo, genera anche elevati rendimenti del capitale.

Le leve del successo nel settore del lusso
Diversamente da altri settori, come quello delle auto o delle telecomunicazioni, in cui la competizione si gioca sul prezzo a discapito dei margini di profitto, quello del lusso è caratterizzato da un numero limitato di grossi player che agiscono sulle leve della differenziazione, dell’innovazione, della qualità del prodotto e della forza del marchio. La crisi economica ha mostrato come anche il business del lusso non sia immune dal ciclo economico. Il 2009 è stato un anno molto difficile per le società del settore, i consumatori hanno cercato di posticipare i consumi discrezionali o di ripiegare su prodotti meno costosi e questo si è tradotto in una riduzione del fatturato.

Le aziende del settore hanno intrapreso diverse vie per affrontare il periodo di crisi e pianificato varie strategie per la crescita nel lungo periodo. L’americana Coach, ad esempio, specializzata nella vendita di accessori, ha aumentato nel 2010 il suo assortimento di borse di fascia media al fine di non pagare un conto troppo salato in termini di mancati ricavi. Mentre Hermés, società francese operante nel segmento degli accessori, abbigliamento e gioielleria, ha continuato nonostante la crisi, la sua politica di razionamento programmato dei prodotti, in modo da rendere ancora più esclusivo e desiderabile il suo marchio. Anche in ottica di lungo periodo le decisioni sono discordanti. Mentre Luis Vuitton continua a diversificare il suo portafoglio investimenti (ultima l’acquisizione di Bulgari), al fine di garantirsi una crescita costante del fatturato, Swatch mantiene il suo focus sul core-business dell’orologeria, e addirittura rilancia, affermando l’intenzione di aprire nuove fabbriche per sostenere la domanda crescente proveniente dai mercati emergenti.

Nel 2010 c’è stata una forte ripresa, determinata soprattutto dalla crescente domanda proveniente dall’Asia, e adesso molte società si trovano nella scomoda posizione di poter sfruttare la forte domanda proveniente dai Paesi emergenti, dove un numero sempre maggiore di persone inizia ad avvicinarsi ai prodotti di fascia alta, e il rischio di inflazionare l’immagine dei loro prodotti. L’ubiquità in questo settore non fa rima con esclusività. Essere molto presenti, aprire un gran numero di nuovi punti vendita per venire incontro alle richieste del consumatore rischia di premiare nel breve termine ma di penalizzare inevitabilmente la società nel medio/lungo periodo, in quanto si rischia di svalutare l’asset di maggior rilevanza, ovvero il marchio. E’ per questo che società come Tiffany o Luis Vuitton sono molto oculati nella loro politica di espansione, sia in termini di numero di punti vendita che di ampiezza degli stessi.  Altre, come Richmond, Tiffany e Swatch, puntano a una maggior integrazione verticale al fine di avere un più ampio controllo della filiera produttiva, garantirsi un maggior controllo dei fornitori e una maggior protezione contro la volatilità del prezzo delle materie prime.

Il made in Italy non vola
Con aziende come Bulgari, Gucci, Versace, Cavalli e molte altre, l’Italia ha una forte tradizione nel settore. Ma sebbene gli sia riconosciuto il merito di offrire prodotti di grande qualità, l’handicap è sempre la mancata capacità di affermarsi tra le big del settore. A frenare le aspirazioni di crescita delle società italiane è il vincolo dimensionale. La maggior parte è nata come impresa artigianale a conduzione familiare e stenta ad affermarsi a livello mondiale proprio per le dimensioni. Il discorso vale soprattutto per i mercati come quello asiatico, che sono lontani non solo dal punta di vista geografico ma anche culturale, per cui servono ingenti investimenti nella distribuzione, nel marketing e nella pubblicità.

Questi investimenti richiedono capitali che si possono ottenere con una politica industriale che punti fortemente alla valorizzazione del settore, o, in alternativa, attraverso il consolidamento del settore. Ma questo in Italia non è mai avvenuto perché gli imprenditori sono sempre stati restii ad unire le forze, preferendo il controllo dell’azienda alle alleanze. E’ per questo motivo che molte delle maggiori imprese sono passate in mano straniera. In questi ultimi anni abbiamo visto Gucci e Bottega Veneta essere acquisite dalla francese Ppr, mentre recentemente lo stesso destino è toccato a Bulgari, rilevata da Lvmh.

Il lusso non è a sconto
I dati dimostrano come il settore del lusso sia stato uno dei primi a riprendere la corsa dopo la crisi e come le società del settore siano tra le più redditizie. I rendimenti del capitale sono molto elevati: la media è attorno al 16-19% per il business del lusso, contro il 5% del comparto auto. Ed è per questo che gli analisti di Morningstar riconoscono alle imprese del settore la presenza di un vantaggio competitivo. Nel 2010 i titoli del lusso sono stati premiati dal mercato, l’indice Msci World Apparel&luxury ha guadagnato il 55%, sovraperformando il mercato mondiale, rappresentato dall’Msci World, del 38%.

L’analisi di Morningstar, comunque, è molto prudente sui trend futuri. La crescita dell’ultimo anno, ma soprattutto le prospettive di crescita nei mercati emergenti, hanno spinto molti investitori a scommettere sul settore. Si prevede che nel giro di cinque anni le aree in via di sviluppo rappresenteranno il 50% del fatturato complessivo dei beni di lusso, grazie ad una crescita del settore superiore al 90% fino al 2015, solo in Asia. Gli analisti però, hanno già scontano questo percorso di crescita nelle loro valutazioni e giudicano i principali titoli del lusso ormai sopravvalutati dal mercato, in media scambiati al 33% di premio e con un rating medio di due stelle.

 

Le Big del settore secondo gli analisti Morningstar
Fonte dati  Morningstar, dati al 19/04/2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Info autore

Francesco Lavecchia

Francesco Lavecchia  è Research Editor di Morningstar in Italia

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