Mentre i consumatori e le aziende gongolano contando quanto gli resta in cassa ogni giorno grazie al calo dei prezzi del petrolio, gli operatori di mercato studiano le tattiche dei grandi estrattori per capire se il barile sarà in grado di rialzarsi dai 40-50 dollari toccati negli ultimi mesi. L’opinione prevalente è che difficilmente si tornerà a livelli vicini ai 100 dollari. In realtà sembra complicato arrivare anche a quei 70-80 dollari che rappresentano la soglia minima per rendere economicamente vantaggioso estrarre oro nero.
Il barile è cambiato
I motivi sono diversi. Innanzitutto c’è un problema di domanda. I consumi di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, in dieci anni, sono calati di oltre il 15%. L’Energy information administration americana, nel suo World Energy Outlook del 2014, prevede fino al 2040 un ulteriore calo del consumo europeo di prodotti petroliferi, per un ammontare di oltre il 30%. Sul continente americano, intanto, la produzione interna di petrolio è fortemente aumentata, in gran parte per effetto della produzione di shale oil.
“In un decennio, gli Stati Uniti sono passati dal dipendere per oltre il 63% dalle importazioni, a una dipendenza attuale inferiore al 40%”, spiega uno studio di MoneyFarm. “Su un consumo totale di poco inferiore a 19 milioni di barili al giorno, a fine 2014 ne producevano più di 11 milioni e dei restanti otto, ne importavano più di 2,5 dal Canada. Le previsioni prevalenti (in gran parte precedenti al recente calo del prezzo) indicano un’ulteriore crescita della produzione interna (sia di gas che di petrolio) e un raggiungimento dell’autosufficienza con l’inizio del prossimo decennio”.
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