Il successo di Buffett va oltre la teoria

Gli economisti Fama e French legano l’extra-rendimento delle azioni al premio al rischio garantito dalle società di piccole dimensioni. Ma il successo del miliardario americano dimostra che il segreto sta tutto nell’irrazionalità del mercato.  

Samuel Lee 20/05/2014 | 10:18
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Il mio collega Lee Davidson mi ha segnalato un interessante articolo degli economisti Eugene Fama (premio Nobel) e Kenneth French,  A Five -Factor Asset Pricing Model (Un modello di valutazione delle azioni in cinque variabili). Fama e French sono famosi per il loro modello che utilizza tre fattori quali mercato, valore e dimensioni per spiegare i rendimenti azionari. Dopo più di 20 anni, però, i due economisti hanno realizzato che il loro approccio non fosse sufficiente a descrivere le performance di una stock e nel loro nuovo lavoro, la cui prima bozza è stata pubblicata nel giugno del 2013, dimostrano come l’inserimento di due fattori aggiuntivi quali la redditività e l’investimento facciano risultare ridondante (e quindi superflua)  la variabile del valore.

Il “valore” è ridondante
In altre parole, i titoli definiti value, cioè quelli con un basso P/B (prezzo/valore attivo) tendono ad avere un rendimento superiore a quelli growth (con elevato P/B) e questo perché storicamente si tratta di società che presentano margini di profitto più elevati e un minor impiego di capitale.

I due definiscono la profittabilità come i ricavi al netto del costo del venduto, degli interessi passivi e dei costi operativi. Tutto fratto il valore contabile dell’attivo patrimoniale. L’intensità di capitale è invece misurata come la crescita dell’attivo anno su anno.

Dal loro articolo è interessante notare come le due variabili siano negativamente correlate tra di loro. In teoria dovremmo aspettarci che le imprese con un elevato rendimento del capitale siano ad alta intensità di capitale, proprio per sfruttare la capacità di monetizzare gli investimenti. In pratica, però, non è così, poiché tali aziende sono cresciute nei loro mercati e quindi a un certo punto non riescono a reinvestire completamente i guadagni ottenuti in progetti ad alto rendimento e li utilizzano per distribuire dividendi generosi o per finanziare un programma di riacquisto di azioni proprie.

Storicamente i titoli value sono identificati come quelli che presentano una più elevata redditività e un minor impiego di capitale. Ma non c’è ragione per credere che questo debba essere vero in ogni momento. Oggi, infatti, si nota come molte società che mostrano consistenti margini di profitto tendono a essere molto più growth (con un alto valore di P/B) di quanto non lo fossero, ad esempio, 15 anni fa. 

L’ammissione di colpa degli economisti
Fama e French hanno ammesso che il loro modello originale dei tre fattori non è supportato dalla teoria e che avevano utilizzato le variabili di valore e dimensione solo perché esse si comportavano meglio di altre nei back-test (verifica del modello con dati reali). Nei loro successivi lavori hanno concluso che, nell’ipotesi di mercati perfetti e di investitori avversi al rischio, i titoli small cap rendano di più perché più vulnerabili al ciclo economico. Da quel momento in poi il fattore dimensionale non è stato più considerato da accademici e professori come statisticamente discriminante a spiegare la redditività delle azioni.

Anche il lavoro di un altro economista, Rolf Banz (pubblicato nel 1981), che dava grossa enfasi al fattore dimensionale, è stato poi parzialmente smentito in seguito alla correzione del campione esaminato (quello iniziale non teneva conto dell’effetto distorsivo prodotto dal fallimento delle imprese durante il periodo preso in considerazione). Il peso di questa variabile è risultato essere molto inferiore e il rendimento in eccesso mostrato dai titoli small cap era invece da imputare in larga parte a titoli di bassissima capitalizzazione e quindi meno liquidi sul mercato. Il fattore dimensionale, però, ha continuato a essere utilizzato nella letteratura economica per abitudine e per rispetto nei confronti dei titolati Fama e French.

La seconda variabile, quella del valore, è sempre risultata significativa nello spiegare i rendimenti azionari, anche se il suo peso è stato condizionato dal contributo delle società a bassa capitalizzazione. Questo output sembrerebbe dare sostegno alla tesi che vorrebbe il valore come un fattore correlato alla rischiosità dei titoli, ma in realtà è difficile legare questa variabile ad una misura di rischio.

I risultati incoronano Buffett
Fama e French hanno poi trovato che l’extra-rendimento  garantito dalla variabile valore può essere spiegato come una combinazione di redditività e intensità degli investimenti. Ma in ipotesi di mercati efficienti la teoria spiega gli elevati rendimenti delle società che presentano queste caratteristiche come la remunerazione per la loro rischiosità.

In accordo con questa tesi, Warren Buffett, che è famoso per prediligere nei suoi investimenti le aziende profittevoli e con bassa intensità di capitale, deve aver per forza di cose sfruttato il premio al rischio di cui parlano i due economisti.

Ma questa storia sembra davvero andare contro il buonsenso. Crediamo, infatti, che il segreto del successo di Buffett sia un altro, e cioè che gli investitori non sono perfettamente razionali e tendono a sottovalutare imprese che hanno ottimi fondamentali. Nell’epoca d’oro della scienza, in cui è possibile stimare modelli con dati ancora non realizzati, il modello di Buffett ha superato l’esame del mercato a pieni voti, anche se non è mai stato pubblicato in una prestigiosa rivista accademica.

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

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Samuel Lee  Samuel Lee is an ETF Analyst with Morningstar.

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