Nella maxi frode da 50 miliardi di dollari non sono finiti solo i fondi hedge, ma anche investitori noti e meno noti. “C’è stata troppa leggerezza”, dice Fabrizio Ladi, senior fund manager di Reyl & Cie a Ginevra
(in un comunicato, la società ha chiarito di non avere esposizione alcuna a Madoff). “La regola che le performance passate non sono indicative per il futuro è stata violata. Pensare che per 15 anni un fondo non perda mai è poco realistico”.
Lo scandalo apre il dibattito sui metodi di selezione degli investimenti. Guardando solamente i rendimenti, i fondi del finanziere americano erano molto attraenti, perché guadagnavano indipendentemente dalle condizioni di mercato. “I processi quantitativi sono basati sullo studio del passato”, sostiene Ladi, “Non necessariamente svelano qualcosa sul futuro. E’ vero, noi gestori non abbiamo la sfera di cristallo, ma ci prendiamo delle responsabilità sul futuro. Non possiamo pensare solo di guadagnare; serve un approccio da buon padre di famiglia”.
Per un gestore hedge, questo significa un’attenta analisi dei processi e delle persone. Per quanto improbabile che abbia fatto tutto da solo, Madoff faceva tutto in casa. La presenza di amministratori indipendenti, auditor, terze parti che si assumono il controllo del processo di investimento, regolari contratti di fornitura rappresenta una garanzia contro possibili frodi. Ladi sottolinea anche l’importanza dell’aspetto umano: la valutazione è analoga a quella che si usa per scegliere un avvocato, un medico o un dentista.
Il caso Madoff insegna che è la trasparenza nei processi, prima ancora che nei portafogli l’elemento che deve guidare la scelta di un investimento alternativo. “L’operazione deve essere sufficientemente capitalizzata (100-500 milioni di euro), ma non troppo”, spiega Ladi. “Se è grande fa fatica a guadagnare. Inoltre, la struttura deve essere semplice e comprensibile, 15-20 persone, perché altrimenti ti fa vedere solo quello che ‘vuole’ farti vedere”.
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