I fondi “finti attivi” continuano a costare troppo

L’Esma valuterà ulteriori misure per assicurare un trattamento equo degli investitori nei diversi paesi. Intanto gli studiosi avvertono: i closet tracker sono destinati ad avere performance deludenti.

Sara Silano 16/07/2018 | 09:26
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Sui “finti attivi”, l’autorità di vigilanza sui mercati europea (Esma) non abbassa la guardia. Dopo il rapporto del febbraio 2016 in cui invitava gli investitori a fare attenzione ai fondi che si dichiarano attivi, ma sono gestiti passivamente e fanno pagare commissioni elevate (closet tracker); a fine giugno ha organizzato una giornata di lavoro per promuovere la convergenza tra le iniziative delle authority locali. A conclusione, il presidente, Steven Maijoor, ha dichiarato che l’Esma continuerà a promuovere l’attenzione sul problema e a valutare ulteriori misure di convergenza per assicurare un trattamento equo in tutti i paesi membri dell’Unione europea.

Nel suo studio del 2016, l’autorità aveva scoperto che il 5-10% dei fondi azionari Ucits (ossia conformi alla normativa europea) erano potenzialmente closet tracker. Anche la Financial conduct authority (Fca) ha denunciato, nel suo report finale sul settore del risparmio gestito inglese del giugno 2017, che circa 109 miliardi di sterline sono allocati in questo tipo di strumenti. Successivamente, nel marzo 2018 ha chiesto ad alcuni asset manager di risarcire gli investitori che avevano sottoscritto closet tracker per un totale di 34 milioni di sterline. Nell’aprile 2018 ha poi pubblicato un set di nuove regole a maggior tutela dei risparmiatori.

Lo stesso Parlamento europeo ha acceso i riflettori sulla più generale tematica della vendita fuorviante e ingannevole di prodotti finanziari e nel giugno scorso ha organizzato una serie di audizioni pubbliche davanti alla Commissione affari economici e monetari (Econ), ascoltando diverse testimonianze tra cui quella della Consob italiana.

Come misurare l’attività del portafoglio
L’indicatore che spesso viene utilizzato per questi studi è l’active share, che misura quanto il portafoglio si discosta dal paniere di riferimento. Gli ideatori, i professori Martijn Cremers (Università di Notre Dame) e Antti Petajisto (Università di New York), hanno identificato nel 60% la soglia al di sotto del quale si collocano i fondi che sostanzialmente sono indicizzati, anche se non lo dichiarano. Questo valore è poi stato utilizzato come standard da molti studi successivi. Ad esempio, una ricerca di Morningstar del 2016, curata da Mathieu Caquineau, Matias Möttölä e Jeffrey Schumacher, sui fondi azionari Europa, mostrava che la percentuale di comparti con active share inferiore al 60% era del 20,2% (il periodo analizzato andava dal 2005 al 2015).

Più recentemente, la Consob francese (Autorité des Marchés Financiers, Amf) ha pubblicato uno studio che propone l’utilizzo di un metodo diverso dall’active share, basato sui rendimenti dei fondi e sui dati di mercato, con l’obiettivo di portare un contributo al dibattito sul tema che rimane aperto a livello europeo. L’obiettivo è garantire una maggior tutela agli investitori.

Closet tracker troppo costosi
Un indice di attività basso non è di per sé negativo; l’importante è che l’investitore non debba pagare un fondo di questo tipo come un attivo. E’ questo il punto su cui si sono accesi i riflettori delle autorità di vigilanza. Lo studio Morningstar sui comparti europei ha calcolato che il costo per unità di active share è eccessivo nel caso dei finti attivi, per cui diventa molto difficile per il gestore battere il benchmark.

“La combinazione di basso active share e alte commissioni è probabilmente uno dei metodi migliori che ho trovato per predire le scarse performance di un fondo”, dice Cremers in un’intervista su Morningstar Magazine, durante la quale precisa anche che questo indicatore “non è una misura dell’abilità di un gestore. Tuttavia, se l’investitore paga molto, deve potersi aspettare un risultato differente dall’indice”.

Il diritto dell’investitore
Si può dibattere se l’active share sia la misura migliore per identificare e punire le società del risparmio che applicano commissioni esagerate per prodotti che si limitano a replicare il benchmark; ma è indubbio che se le autorità regolamentari e di vigilanza vogliono tutelare l’investitore finale devono promuovere la trasparenza e dare a quest’ultimo la possibilità di determinare se il costo che paga è giustificato. Probabilmente è anche nell’interesse dei “veri” attivi, dato che i flussi di capitali si stanno spostando sempre più verso i meno costosi strumenti indicizzati quotati (Etf) e non. Morningstar ha calcolato che a fine 2017, gli index fund rappresentavano il 38% del patrimonio totale gestito statunitense e circa il 20% di quello europeo, con percentuali molto più alte nel segmento azionario.

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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