A lezione dal fund manager

Gestione attiva, passiva o smart. Ecco quali sono i principali approcci utilizzati nella costruzione dei portafogli.

Francesco Lavecchia 25/04/2017 | 09:11
Facebook Twitter LinkedIn

Com’è gestito il tuo fondo? A volte gli investitori commettono l’errore di focalizzare l’attenzione sulla lista dei titoli inseriti in portafoglio e mettono in secondo piano la strategia adottata dal fund manager nel comporlo. Qual è l’obiettivo di investimento del comparto e in che modo il gestore cercherà di realizzarlo? La teoria finanziaria distingue in questo senso due approcci fondamentali nella gestione: quello attivo e quello passivo.

Gestioni attive
I gestori che adottano una strategia attiva partono dal presupposto che il mercato non sia efficiente, che l’informazione sia incompleta e che attraverso la loro esperienza, le loro capacità e la tecnologia a disposizione possano realizzare un extra-rendimento. Per questo si fanno carico di numerose scelte di investimento legate al timing di acquisto e vendita, all’allocazione del capitale nelle diverse tipologie di asset e ai singoli titoli in portafoglio.

All’interno di questa macro-categoria troviamo le strategie che hanno come obiettivo quello di sovraperformare un indice di riferimento (benchmark oriented) e quelle che puntano al raggiungimento di un determinato risultato (outcome oriented). Nel primo caso il gestore cerca di generare alpha divergendo dall’indice attraverso l’utilizzo di pesi o titoli diversi rispetto ai constituent dello stesso, seguendo una propria idea di come andranno i mercati e di quali sono i fondamentali delle società. Nel secondo caso, invece, le scelte del fund manager sono completamente slegate dal benchmark. Inoltre, in base all’obiettivo che si prefiggono di realizzare, tali strategie si distinguono in:

Absolute return, rendimento assoluto (generalmente pari a quello di un benchmark monetario maggiorato di un determinato spread), che mirano a ottenere risultati positivi in qualsiasi fase di mercato, sia in quelle rialziste che in quelle ribassiste. Esse non hanno alcun vincolo nella composizione del portafoglio, né in termini di processo di selezione, né in termini di strumenti di investimento (che possono comprendere anche derivati).
Real return, rendimento reale, che hanno come obiettivo un guadagno al netto dell’inflazione. Esse sono utilizzate prevalentemente nella gestione di portafogli obbligazionari, i cui sottostanti sono soggetti alla decurtazione del valore a causa dell’incremento dell’indice dei prezzi. Anche in questo caso, i manger hanno a disposizione una vasta gamma di strumenti di investimento, tra cui anche quelli indicizzati.
Income, che puntano ad assicurare all’investitore un reddito elevato e costante nel tempo attraverso l’inserimento in portafoglio di titoli azionari e obbligazionari in grado di garantire cedole generose.

Gestioni passive
Nella gestione passiva il portfolio manager riduce al minimo le decisioni di investimento limitandosi a replicare un indice di riferimento (azionario, obbligazionario o bilanciato). La logica che sta dietro questo approccio è che il mercato sia efficiente (in quanto i prezzi riflettono a pieno tutta l’informazione disponibile) e dunque non sia possibile realizzare un risultato migliore. Il compito del gestore è quello di esporsi ai titoli inseriti nel benchmark utilizzando gli stessi pesi in modo da limitare i costi di transazione e dunque le commissioni a carico dell’investitore. Gli strumenti utilizzati, nel caso di replica di indici azionari, obbligazionari, monetari o composti sono gli Exchange traded fund (Etf) o gli index fund. Se, invece, il benchmark riguarda le commodity o derivati su materie prime, allora si parla di Exchange traded commodity (Etc).

Smart beta
Tra questi due approcci estremi si è recentemente fatta strada una terza strategia, definita smart beta o strategic beta. In questo caso abbiamo a che fare con fondi passivi che però prendono posizioni attive. Essi, infatti, puntano a sovraperformare un indice replicandolo attraverso una metodologia diversa dall’originale (che pesa i sottostanti in base alla capitalizzazione di mercato) che tiene conto di uno o più fattori (come ad esempio volatility, value, growth, small cap, dividendi) ritenuti in grado, dal gestore, di generare un extra-rendimento.

Quelli che utilizzano il fattore della volatilità, ad esempio, si basano sull’evidenza empirica che su intervalli temporali di lungo termine le holding con più bassa variabilità sovraperformano quelle con una maggiore dispersione dei rendimenti. Questi prodotti, quindi, cercano di battere l’indice di riferimento pesando i singoli titoli non in base alla loro capitalizzazione di mercato ma in base alla volatilità, sovrappesando quelli meno variabili e sottopesando quelli che lo sono di più. 

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

Facebook Twitter LinkedIn

Info autore

Francesco Lavecchia

Francesco Lavecchia  è Research Editor di Morningstar in Italia

© Copyright 2024 Morningstar, Inc. Tutti i diritti sono riservati.

Termini&Condizioni        Privacy        Cookie Settings        Disclosures