La Fed busserà davvero tre volte?

La Banca centrale Usa ha promesso nuovi rialzi dei tassi nel corso del 2017. Ma la storia insegna che non sempre mantiene la parola. Gli istituti di credito ci sperano. Il mattone si preoccupa. Il reddito fisso, intanto…

Marco Caprotti 16/12/2016 | 09:41
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Questa volta la Federal Reserve manterrà le promesse? La domanda degli investitori, la cui risposta può spostare gli asset all’interno dei portafogli, arriva dopo che il Fomc (Federal open market committee, il braccio operativo della Banca centrale Usa) ha alzato il costo del denaro portandolo da un range tra 0,25% e 0,50% a un intervallo tra 0,50% e 0,75%. L’istituto guidato da Janet Yellen prevede di aumentarlo ancora nel 2017 e negli anni seguenti. La previsione della Fed è per tre rialzi l’anno prossimo.

A settembre la Fed aveva anticipato due aumenti per il 2017 e tre per il 2018 e 2019. Non è detto che tutto ciò accada. Nel 2016 l’istituto ha alzato i tassi di interesse una sola volta, mentre a dicembre 2015, quando li aveva aumentati per la prima volta dal giugno 2006, aveva anticipato quattro giri di vite nel corso dell'anno che si avvia a conclusione. A marzo parlava di due, ipotesi confermata a giugno e quindi rivista ancora a settembre, appunto, a un solo aumento. Ma tre rialzi dei tassi nel 2017 sono plausibili alla luce delle previsioni macro sugli Stati Uniti? “Credo che tre strette siano una scelta fattibile”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “Nel corso di quest’anno i tassi hanno dovuto inseguire l’andamento dell’economia e dell’inflazione. A un certo punto dovranno raggiungerli per portare la situazione in equilibrio”.  

Negli Usa, come ha confermato la Fed, l'attività economica si sta espandendo a un passo moderato sin da metà anno. A novembre l'istituto centrale aveva fatto notare che la congiuntura “si era ripresa dal passo modesto visto nella prima metà” del 2016. La fotografia scattata dalla Fed sul mercato del lavoro è simile: il numero di posti di lavoro creati “è stato solido negli ultimi mesi”, come detto il mese scorso, ma il “tasso di disoccupazione è sceso” e non semplicemente “rimasto poco mosso” come notato a novembre. E’ passato infatti al 4,6% dal 4,9%, come emerso dal rapporto sull'occupazione diffuso dal governo Usa il 2 dicembre e relativo al mese scorso. L'inflazione è salita da inizio anno, ma resta sotto il target del 2%.

L'ANDAMENTO DEL PIL, DELLA DISOCCUPAZIONE E DELL'INFLAZIONE IN USA

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Fonte: Federal Reserve 

La rincorsa della Fed
“Un elemento determinante per l’inflazione sarà l’andamento del petrolio e dei suoi derivati” spiega Johnson. “A febbraio i prezzi della benzina negli Stati Uniti sono precipitati. Poi si sono ripresi con il risveglio del barile. Da qui al prossimo meeting della Fed il costo della vita potrebbe essere salito così tanto da convincere la Banca centrale a dare un’altra stretta”.  C’è poi la variabile Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti in campagna elettorale ha parlato di un corposo programma di investimenti infrastrutturali che, unito alle promesse di tagli alle tasse, potrebbe dare una spinta all’inflazione. “Ci sono poi da considerare le misure protezionistiche annunciate”, spiega Sarah Bush, analista di Morningstar. “Da una parte possono frenare l’arrivo di merci a basso prezzo e portare a un aumento del costo dei beni prodotti in Usa che farebbe crescere il costo della vita. Nello stesso tempo, però, potrebbe calare la domanda globale di merci americane e questo spingerebbe in basso l’inflazione”.  

Cambia l’umore di banche e mattone
Nel frattempo ci sono segmenti di mercato che aspettano con trepidazione i prossimi rialzi della Fed, mentre altri preferirebbero un ritmo un po’ più moderato. “I rialzi sono una buona cosa soprattutto per le banche e per i loro guadagni”, dice Johnson. “Il segmento che si preoccupa di più è quello del real estate che, di solito, reagisce male anche a crescite minime dei tassi di interesse. La fotografia che potremmo avere dalle strette in realtà è un po’ più complessa. Certo, diventerà più caro sottoscrivere mutui per l’acquisto di immobili. Ma dall’altra parte le banche saranno più propense a concedere prestiti”.

Cosa faranno i bond?
Come reagirà, invece, il mercato obbligazionario alle mosse della Fed? “La risposta è: dipende”, spiega Eric Jacobson, senior analyst che segue le strategie sul reddito fisso per Morningstar. “I bond non si comportano sempre allo stesso modo ogni volta che c’è un rialzo dei tassi di interesse. Gli investitori possono pensare che la Fed stia agendo troppo in fretta, troppo lentamente o che non stia facendo abbastanza. E a ogni idea corrisponde un comportamento diverso”. Nel periodo marzo 2004-giugno 2006, la Fed ha alzato il costo del denaro di circa quattro punti percentuali. In quell’occasione la risposta è stata misurata e i rendimenti dei Treasury a 10 e 30 anni non sono cresciuti quanto i tassi della Fed.

RIALZI DELLA FED: COME IL MERCATO HA REAGITO A META' DEGLI ANNI 2000

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Fonte: Morningstar Direct

Una situazione diversa si è verificata quando la Fed ha alzato i tassi rapidamente fra il 1993 e il 1994. “In quell’occasione gli investitori hanno fatto irripidire la curva dei rendimenti dei bond a lungo termine”, dice Jacobson. “Il fatto che la Banca centrale avesse agito repentinamente ha mandato nel panico il mercato facendogli credere che stesse succedendo qualcosa di grave”. Da allora la Fed, che in quel periodo era guidata da Alan Greenspan, ha preso l’abitudine di preparare i mercati ai suoi annunci.

RIALZI DELLA FED: COME IL MERCATO HA REAGITO A INIZIO ANNI '90

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“Per quanto riguarda il mercato corporate bisognerà fare attenzione soprattutto alle società che hanno molte emissioni vicine alla scadenza e che potrebbero iniziare a trovare costoso rifinanziare il debito con nuovi bond”, dice Jacobson

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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