Portafogli ai tempi della globalizzazione

La diversificazione geografica è messa in crisi dalle multinazionali. I fattori settoriali spiegano meglio le differenze nelle performance delle aziende.

Sara Silano 19/10/2015 | 09:27
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Viviamo in un’economia globalizzata. Compriamo fondi ed Etf (Exchange traded product) che hanno in pancia titoli quotati sulle Borse mondiali appartenenti ad aziende che fanno affari in paesi diversi da quelli di origine. Per questa ragione i ricercatori di Morningstar investment management non hanno dubbi: la sede di un’impresa non è molto importante per determinarne le performance.

In un working paper sul tema, hanno scoperto che ha più importanza il settore di appartenenza. “Gli investitori devono avere una profonda conoscenza dei fattori-chiave della performance di un’azienda quando costruiscono portafogli diversificati”, si legge in un articolo di Philip Straehl, uno degli autori del report, sul Morningstar Magazine di Agosto-settembre. Cosa succede se si acquista un fondo azionario internazionale nella speranza di ridurre il rischio-paese e le aziende che costituiscono il suo patrimonio sono anch’esse globali?

Ritorno ai fondamentali
Lo studio ha preso in considerazione l’importanza relativa dei fattori regionali ed industriali in 23 mercati sviluppati e 23 emergenti per spiegare le differenze nella crescita dei fondamentali di un’azienda. A differenza del passato, i ricercatori sono andati alla radice della formazione della performance, considerando ciò che determina la crescita degli utili e dei dividendi. (E’ bene ricordare che il valore intrinseco di una società è legato alla sua capacità di generare cash flow).

L’analisi ha evidenziato come i fattori “industriali” da soli spieghino più del 50% della variabilità nella crescita di un’azienda nei paesi sviluppati. “Questa scoperta suggerisce che un’esposizione settoriale bilanciata è una fonte di diversificazione più importante delle aree geografiche”, dice Straehl.

Ricavi globali
Più una società ha un giro di affari globale, minore è l’efficacia dell’allocazione geografica per un investitore. Ciò è ancor più vero, se si considerano le dimensioni della globalizzazione. Nel 2003, i ricavi esteri delle aziende appartenenti all’S&P500 ammontavano al 42%, poi c’è stato un picco nel 2008, prima della crisi finanziaria (48%). Più recentemente c’è stata una stabilizzazione intorno al 46%. In altri mercati, come il Regno Unito, il peso è maggiore. Uno studio sul Ftse100, l’indice di riferimento della Borsa di Londra, mostra che nel 2013 solo il 23% dei ricavi provenivano dal business domestico.

Beni di consumo, i più internazionali
Non tutti i settori sono interessati allo stesso modo dalla globalizzazione. Secondo l’analisi di Morningstar sull’S&P500, i comparti con più alto giro d’affari estero sono quelli dei beni di consumo sia discrezionali (17,4%) sia primari (19,2%). Seguono la tecnologia (14,8%) e gli industriali (14,6%). Solo telecomunicazioni e utilities hanno un’attività prevalentemente, o esclusivamente, domestica.

Settori e mercati
Nonostante, i fattori industriali spieghino le differenze nella crescita dei fondamentali di un’azienda sia sui mercati sviluppati sia sugli emergenti; nei primi l’importanza dei driver settoriali è maggiore. Il dato non stupisce, dal momento che hanno un gran numero di aziende multinazionali.

Lo studio di Morningstar apre nuovi orizzonti in tema di diversificazione. Tradizionalmente gli investitori hanno cercato di ridurre la cosiddetta home bias, ossia la sovraesposizione al mercato domestico con investimenti in altre aree geografiche. “In realtà, i risultati della nostra analisi suggeriscono che gli effetti della diversificazione regionale sono limitati”, conclude Straehl, “mentre quella settoriale è più importante come fonte di diversificazione, soprattutto nei paesi sviluppati”.

Per saperne di più sulla metodologia e l’analisi empirica leggi l’articolo Location isn’t everything sul Morningstar Magazine. 

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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