Pensioni, la flessibilità ha un prezzo

In ottobre il governo dovrà presentare la Legge di stabilità per il 2016, che comprenderà anche importanti novità sul fronte previdenziale. Sul tavolo diverse proposte: dal part-time, al prestito Inps, alle penalità.

Valerio Baselli 28/08/2015 | 10:14
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Si torna a parlare di pensioni, il cantiere aperto per antonomasia della politica italiana. Quest’anno, la parola d’ordine è una sola: flessibilità. Il governo e le parti sociali dovranno infatti riaprire il dossier previdenziale e trovare una proposta da sottomettere al Parlamento entro metà ottobre, quando partirà la discussione sulla Legge di stabilità per l’anno prossimo.

La volontà, ribadita da tempo, è quella di superare la Legge Fornero (secondo la quale è oggi possibile conseguire la pensione di vecchiaia con 66 anni e 3 mesi di età oppure con 42 anni e 6 mesi di contributi) e di introdurre meccanismi di flessibilità in uscita, senza però pesare sulle casse dello Stato, anche per evitare tensioni con l’Ue. Nel corso di una recente intervista rilasciata ad AdnKronos, Tiziano Treu ha spiegato che introdurre la flessibilità nel sistema previdenziale italiano è una priorità, ma se le penalizzazione saranno basse lo Stato dovrà sopportare dei costi elevati. Per l’ex Ministro del Lavoro andrebbe trovato un equilibrio, magari introducendo un meccanismo di pensione part-time, così da alleggerire l’Inps e creare posti di lavoro.

Pensionati part-time
Treu, quindi, si rifà a modelli già in uso in altri paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Olanda, in cui esiste il concetto di “pensione parziale”. In Francia, ad esempio, questo meccanismo (detto contrat de géneration) comporta che la pensione sia correlata alla riduzione dell’orario lavorativo; per le piccole e medie imprese l’adozione di questo schema è facoltativa e va concordata col datore di lavoro, per le aziende con più di 300 dipendenti, invece, è obbligatoria. Va da sé che i costi potenziali sono piuttosto elevati e quindi i requisiti di accesso ne devono tenere conto (ad esempio si potrebbe dare questa possibilità solo negli ultimi due o tre anni antecedenti al pensionamento definitivo). Dall’altro lato, questo meccanismo offre flessibilità in uscita e possibilità per le aziende di affiancare un neoassunto a un senior, senza ulteriori costi aggiuntivi, oltre a non contrastare con la tendenza al rialzo dell’età pensionabile.

Il prestito ponte
Un’altra strada è rappresentata dalla possibilità di chiedere un prestito all’Inps. L’idea, venuta per primo a un altro ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, e ripresa da quello attuale, Giuliano Poletti, prevede la concessione di un prestito pagato dall’Inps a quei lavoratori che decidano di abbandonare in anticipo l'impiego; in realtà si tratterebbe comunque di somme che appartengono ai lavoratori stessi e che andrebbero rese tramite ulteriori decurtazioni future sull’assegno previdenziale.

Anticipi con penalità
Inoltre, resta sempre valida la proposta di Cesare Damiano, oggi presidente della Commissione lavoro alla Camera dei deputati, la quale prevede la possibilità di andare in pensione con quota 97 (62 anni di età e 35 anni di contributi) o a quota 41 (anni di contributi a prescindere dall’età), a fronte di un taglio sull’assegno pensionistico di circa 2 o 3 punti percentuali per ogni anno di anticipo. In realtà, secondo alcuni osservatori, per essere economicamente sostenibile, i tagli dovrebbero essere nell’ordine del 4-5% per ogni anno di mancata contribuzione.

Detto questo, alla fine è anche possibile che il governo decida di combinare queste tre strade e di lasciare la scelta su come anticipare l’uscita dalla vita attiva al lavoratore stesso. A prescindere dalle modalità che verranno scelte, comunque, sembra chiaro che chi vorrà lasciare il proprio lavoro in anticipo dovrà in ogni caso pagare un prezzo, resta da capire quanto salato.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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