Gli Etf studiano i fondamentali

Alcune strategie alternative puntano sull’approccio value per battere il mercato. Gli indici Rafi, fra i più usati nei prodotti Strategic beta, hanno costruito il loro successo guardando a ricavi, dividendi, flussi di cassa e patrimonio. Ecco perché è necessario analizzare i numeri di una società.

Francesco Lavecchia 24/06/2015 | 09:41
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Il segreto degli indici Rafi è l’approccio value. I benchmark creati da Research Affiliates puntano a sovraperformare e a limitare la volatilità del mercato, grazie ad un processo di selezione e ponderazione dei titoli che compongono il basket basato sui fondamentali delle società.

La costruzione degli indici Rafi
Diversamente degli indici tradizionali, i costituenti di questi indici non sono pesati in base alla capitalizzazione di mercato. Questo fa sì che essi non siano sbilanciati a favore dei titoli maggiormente sopravvalutati e che quindi siano meno sensibili agli andamenti delle Borse. L’evidenza empirica, infatti, dimostra che durante le bolle speculative i benchmark costruiti da Research Affiliates sottoperformano gli indici capital weighted, mentre fanno meglio in condizioni di normalità.

L’altra differenza è invece legata al numero di metriche utilizzate nella loro costruzione. L’approccio di Rafi prende in considerazione quattro variabili fondamentali: fatturato, flussi di cassa, dividendi e patrimonio netto. Questo conferisce maggior equilibrio all’indice e dà solidità ai suoi risultati. Se, ad esempio, il processo di selezione e ponderazione si fosse basato unicamente sui ricavi delle società, allora l’indice avrebbe sovrappesato le aziende di maggior dimensione ma, magari, più carenti sul profilo dei margini. Mentre, utilizzando unicamente i cash flow, si sarebbe realizzata una sovraesposizione ai settori ciclici.

L’importanza dei fondamentali
I sostenitori dello stile value ne apprezzano le capacità prospettiche. Società con solidi fondamentali, infatti, hanno solitamente una forte posizione di vantaggio competitivo all’interno del proprio settore, quello che Morningstar chiama Economic moat. Questo è garanzia di buoni risultati anche nel futuro. Ma quali sono le variabili cui bisogna guardare per giudicare il valore di un titolo?

La prima è quella relativa ai ricavi. Per cominciare è necessario andare indietro e analizzare il recente andamento del fatturato. L’azienda è cresciuta? Qual è stato il progresso delle vendite? Numeri elevati, in questo caso, sono un buon segno. Ma vanno contestualizzati nello spazio e nel tempo.

Innanzitutto va considerato il ciclo di vita della società. Tassi di crescita molto elevati non devono impressionare se ci troviamo agli inizi di una attività, mentre devono essere interpretati come un ottimo segnale se arrivati in una fase di maturità. Altra cosa da considerare è la fase del ciclo economico in cui ci si trova. Se, ad esempio, si parla di un retailer nell’abbigliamento, le vendite sono destinate a calare sensibilmente durante le fasi di recessione, nelle quali si registra tipicamente una contrazione dei consumi discrezionali. Mentre ci si aspetta che salgano in maniera significativa nei periodi di espansione.

Un esercizio utile è quello di confrontare i risultati della società con quelli realizzati mediamente dai suoi competitor e con quelli riportati dai leader del settore. Se, infatti, negli ultimi cinque anni i ricavi dell’azienda sono cresciuti a un tasso del 4%, ma i suoi concorrenti hanno realizzato in media una performance del 7%, vuol dire che si sta scommettendo sul cavallo sbagliato. Al contrario, se i risultati della società sono in linea con quelli riportati dai primi della classe allora vuol dire che la strategia del management sta avendo successo.

Occhio alla volatilità dei risultati. Molto spesso deriva dalle caratteristiche del settore. Non solo, quindi, dalla sua dipendenza al ciclo economico, ma anche dall’esposizione a variabili esogene (come può essere il costo del carburante o l’accesso al credito nel caso di un produttore di auto). Bisogna, però, controllare che la variabilità dei risultati non dipenda da inefficienze nel modello di business. Può accadere, infatti, che i ricavi siano concentrati in un numero molto ristretto di clienti e che quindi questi possano registrare forti cali nel caso in cui l’impresa perda uno di essi.

C’è crescita e crescita
E’ utile, poi, distinguere la crescita “organica” (quella a parità di capacità produttiva) da quella indotta da nuove acquisizioni. Nel primo caso significa che i prodotti e servizi offerti raccolgono il favore del mercato e che probabilmente la società sta aumentando la propria fetta di mercato. Crescere tramite operazioni di M&A, invece, comporta l’impiego di nuove risorse e quindi l’assorbimento di liquidità e/o l’assunzione di nuovo debito. Per quanto l’indebitamento non sia una cosa di per sé negativa, bisogna però guardare all’indice di redditività del capitale investito (Roi=Risultato operativo/Totale attivo), che esprime il rendimento dell'investimento effettuato nell'attività tipica dell'azienda, e confrontarlo con quello medio del settore. Se il risultato è positivo, vuol dire che le acquisizioni non hanno aumentato la complessità delle operazioni e non hanno introdotto inefficienze nella gestione.

Attenzione però a verificare se questi ricavi si trasformino poi in denaro. Le vendite si registrano a fattura emessa, ma non è scontato che i clienti paghino la merce. Se i crediti crescono più del fatturato  vuol dire che probabilmente l’azienda sfrutta lo strumento della dilazione del pagamento per attrarre la clientela. Questo non è di per sé un male, ma con il tempo potrebbe intaccare la liquidità di cassa. 

Cosa c’è dietro l’utile?
L’utile d’esercizio misura la bontà della gestione aziendale. Se i ricavi sono sufficienti a coprire tutti i costi operativi, quelli finanziari e le tasse, allora vuol dire che il management ha fatto un buon lavoro. Bisogna, però, essere molto attenti a come è stato prodotto questo risultato. Occhio quindi alla gestione straordinaria. La dismissione di asset potrebbe aver prodotto una plusvalenza, quindi un ricavo che non si ripeterà nel prossimo esercizio. Se questo risultato è determinante sull’utile d’esercizio significa che non ci sono le basi perché l’azienda si ripeta anche nel futuro.

Attenzione anche alla gestione finanziaria. I rendimenti prodotti da investimenti finanziari potrebbero non essere frutto del caso, ma di una intelligente gestione degli asset a disposizione dell’azienda.Questa, però, è e deve rimanere un’attività marginale.

E’ necessario, poi, guardare all’utile operativo non solo in termini assoluti ma anche in relazione al fatturato (margine operativo= Utile operativo (Ebit)/Totale ricavi). Relativamente a questo indice, poi, bisogna confrontare il suo valore con quello dei competitor e osservarne la variazione nel tempo in modo da analizzarne le cause. Se il margine operativo aumenta più che proporzionalmente all’aumentare dei ricavi, significa che l’azienda ha una struttura produttiva rigida in cui c’è un’alta incidenza dei costi fissi. Questo è un vantaggio nelle fasi di forte crescita, ma può essere un problema nel caso in cui il mercato registri una flessione.

Occhio alle manipolazioni contabili
Attenti, infine, alle manipolazioni contabili. Sul risultato d’esercizio incidono anche voci come i costi di ammortamento e gli accantamenti che sono frutto di stime. In caso di variazione significativa di queste voci è necessario spulciare il bilancio aziendale per capire come sono state calcolate e se e per quale motivo il metodo di calcolo è stato cambiato.

L’analisi del dividendo
Un’altra variabile da osservare è il dividendo, cioè la parte di utili redistribuita agli azionisti. Molti investitori guardano con interesse quelle società con un elevato dividend yield (dividendo/prezzo di mercato dell’azione) poiché attratti dalla prospettiva di un rendimento sicuro indipendentemente dall’andamento delle Borse. Nell’ottica di un’analisi fondamentale di un titolo, invece, bisogna mettere in secondo piano lo yield e concentrarsi su quello che c’è dietro la cedola.

Cioè fare delle valutazioni sulla sicurezza del dividendo e sulla possibilità che esso possa crescere in futuro. Bisogna guardare quindi non solo alla stabilità finanziaria, ma anche alla disciplina della politica di dividendo, alla ciclicità del settore e al posizionamento dell’azienda all’interno dello stesso. Una società con solidi fondamentali, con un bilancio in salute e attiva in un business difensivo, ad esempio, sarebbe in grado di garantire un pay-out (quota di utili distribuiti agli azionisti) del 100%.

Al contrario, un’azienda più esposta al ciclo economico, molto indebitata e in svantaggio rispetto ai leader del settore potrà probabilmente distribuire una percentuale tra il 30% e il 40%. Una politica di dividendo disciplinata è di solito garanzia anche per il futuro. Il management, infatti, è restio a tagliare la cedola perché sa che così facendo tradisce le aspettative degli azionisti. In molti casi gli investitori tengono in portafoglio dei titoli solo per la prospettiva di intascare un rendimento sicuro. Ridurre il dividendo, quindi, potrebbe significare dare il via libera al sell-off del titolo. 

Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.

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Info autore

Francesco Lavecchia

Francesco Lavecchia  è Research Editor di Morningstar in Italia

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