Un 2013 da fregarsi le mani

Wall Street ha avuto 12 mesi caratterizzati da record nonostante i problemi legati al debito e al tapering. Le Borse di Eurolandia hanno fatto meglio dell'economia. Il Giappone deve ancora capire l'Abenomics. Gli emergenti piangono.  

Marco Caprotti 03/01/2014 | 10:28
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Il 2013 potrebbe aver posto le basi per l’uscita di alcune economie dalle situazioni di crisi, fornendo in questo modo un trampolino ai mercati finanziari per ulteriori rialzi. La situazione delle diverse aree geografiche, tuttavia, nei prossimi mesi rischia di rimanere eterogenea. Nel frattempo, chi ha investito con un orizzonte internazionale si frega le mani. L’indice Msci World (calcolato in euro), l’anno scorso ha segnato +21,2%, in progresso rispetto al +14% del 2012.

Stati Uniti
“Record”, è stato il termine più utilizzato l’anno scorso quando si è parlato del mercato americano. Dopo una serie di rialzi che hanno portato Wall Street a migliorare i propri massimi storici (e in mezzo a una discreta volatilità), l’indice S&P 500 ha archiviato il 2013 con un rialzo del 30%, il bilancio annuale migliore dal 1997. Il Dow Jones ha visto un +26,5% circa, migliore performance dal 1995. Il Nasdaq Composite è quello che ha corso più di tutti negli ultimi 12 mesi, +38%, facendo segnare l’incremento più sostenuto dal 2009.

Arrivare a questi risultati non è stato facile. Ad alimentare l’ottimismo all’inizio dell’anno è stato l’innalzamento del tetto del debito pubblico di 2.100-2.400 miliardi di dollari in tre tranche, a fronte di una riduzione analoga della spesa pubblica in dieci anni. Si tratta di una questione diversa dal fiscal cliff (l’insieme dei tagli alla spesa pubblica uniti alla fine degli sgravi introdotti nell’era Bush, per il quale è stata trovata una soluzione parziale), anche se è collegata. Per dirla con gli americani, però, the can was kicked down the road (era stato dato un calcio al barattolo per spostarlo più avanti). Il compromesso raggiunto dal Congresso sui temi del bilancio e del tetto al debito, infatti, era solo temporaneo e i problemi non erano stati risolti. Poi è arrivata la firma da parte del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, del provvedimento che consente l’innalzamento del debito Usa e ha scongiurato, di fatto, il rischio di un default del paese. Il Continuing Appropriations Act, prevede per l’anno 2014 gli stanziamenti necessari per finanziare le attività del governo federale ed estende il limite di indebitamento fino al 7 febbraio.

Lo scenario macro, intanto, è stato ben fotografato dall’ultimo Beige Book, il rapporto sullo stato di salute dell’economia americana preparato dalla Federal Reserve. Alcune parti degli Stati Uniti in settembre e inizio ottobre hanno “sperimentato una crescita più lenta”, ma le notizie raccolte sono state frammentate, complice lo shutdown (la paralisi federale scattata l’1 ottobre a causa del mancato accordo sulla legge di bilancio). L’economia americana è comunque cresciuta a un passo “tra modesto e moderato” nei mesi recenti, anche se lo stallo di Washington si è fatto sentire. Il documento dice inoltre che “permane un generalizzato cauto ottimismo sulle prospettive future dell’attività economica”, anche se in molte aree “è stato rilevato un aumento dell’incertezza dovuta per larga parte allo shutdown e al dibattito sul tetto del debito”.

Europa
Dopo un inizio d’anno zoppicante, l’Europa alla fine del 2013 sembra aver trovato il Filo di Arianna per superare la crisi. Nel frattempo, però ha dovuto fare i conti con alcuni ostacoli che potevano compromettere sul serio l’uscita dal tunnel (peraltro da verificare nei prossimi mesi). Come l’esito incerto delle elezioni italiane di febbraio che hanno riportato la Penisola al centro dei discorsi sulla crisi. Tanto, che si arrivati a parlare di un piano di salvataggio da parte della Bce. Poi c’è stata la questione di Cipro il cui default (e il possibile effetto contagio) è stato evitato solo grazie a un forzoso prelievo dai conti correnti delle banche dell’isola. Per quanto riguarda il fronte borsistico, tuttavia, gli operatori hanno iniziato a guardare con occhi nuovi l’equity del Vecchio continente. La situazione della regione, dicevano gli operatori, è nelle mani del presidente della Bce, Mario Draghi, che ha promesso di fare tutto il possibile per evitare il disastro. Meglio approfittare, aggiungevano, delle buone valutazioni azionarie. Discorsi che hanno convinto anche gli investitori americani e, più in generale, tutti coloro che vanno a caccia di rendimenti. Gli ultimi sviluppi, intanto, parlano di un riequilibrio della situazione congiunturale europea (con l’indebolimento della Germania e il rafforzamento delle economie periferiche) e un maggiore interesse verso i titoli del Vecchio continente, preferiti a quelli americani considerati troppo cari.

In Borsa, Francoforte è stata la regina d’Europa nel 2013. L’indice tedesco Dax ha fatto segnare la migliore prestazione tra le Borse continentali, guadagnando negli ultimi dodici mesi il 25,48%. Performance che le permette di distaccare tutti gli altri listini: Madrid è l’unica altra Piazza a poter vantare un incremento superiore al 20%, con il +21,2% dell’Ibex 35. Praticamente allineati tutti gli altri indici: il Cac40 parigino chiude l’anno con un +17,4%, sulla falsariga di Milano, dove il Ftse Mib è salito del 16,6% (+17,6% il Ftse All Share). +16,6% anche per Amsterdam, mentre si è fermata a +14,3% Londra. A Milano ad aggiudicarsi lo scettro di miglior titolo dell’anno è stata Yoox, ammessa tra le big milanesi soltanto a fine 2013, che ha chiuso con un rialzo del 173,49%. Alle sue spalle, anch’esse con guadagni a tre cifre, si sono piazzate Fondiaria-Sai (+147,21%) e Mediaset (+121,47%), mentre il risultato peggiore è stato quello di Saipem (-47%), che ha vissuto un anno borsistico in parte travagliato a causa dei profit warning. 12 mesi da ricordare anche per A2a (+94,49%), Ferragamo (+66,17%), Autogrill (+58,31%) e Fiat (+56,86%), che ha trascinato al rialzo anche Exor (+52,16%). Tra le banche, UniCredit è salita del 45,17% e Intesa Sanpaolo del 38%. Sulla parità la Popolare di Milano (-0,44%), mentre maglia nera del settore è stata Mps (-22,29%).

Giappone
E’ stato un 2013 da incorniciare anche in Giappone. Il Nikkei, il principale indice azionario giapponese l’anno scorso ha chiuso con una performance vicina al 57%, il miglior risultato registrato dal 1972. In forte rialzo anche l’indice generale Topix, che da inizio anno ha guadagnato il 52%.

Il boom di Tokyo è stato favorito dall’avvento dell’esecutivo guidato da Shinzo Abe sul finire del 2012 e dall’introduzione della cosiddetta Abenomics, una politica economica improntata su misure straordinarie di stimolo monetario e fiscale. La Bank of Japan, intanto, ha allentato la politica monetaria con l’obiettivo di sbaragliare definitivamente la deflazione, che morde l’economia nipponica da circa 15 anni, e allo stesso tempo di rilanciare la crescita economica del Sol Levante. In questo senso è stato fondamentale il crollo dello yen sui mercati internazionali, che ha favorito il boom delle esportazioni.

Emergenti
Chi non festeggia sono gli emergenti. L’indice Msci dedicato ai mercati in via di sviluppo l’anno scorso ha perso il 6,8%, in decisa controtendenza rispetto al 2012. A preoccupare è stata soprattutto la Cina che, con l’ultimo Congresso del Partito comunista, è passata da un modello economico basata sull’export a uno fondato sui consumi interni. Che le cose nella prima economia emergente del mondo non stessero filando nel modo sperato si è capito fra marzo e aprile, quando il paese ha annunciato un disavanzo della propria bilancia commerciale per il mese di marzo. Una situazione insolita per il più grande esportatore del mondo, che ha messo in dubbio la forza della ripresa e della crescita in quella che è considerata una delle locomotive (insieme agli Usa) della congiuntura globale. Ma c’è anche un altro nodo che la Cina deve affrontare. A partire dal 2008, le aggressive misure di stimolo hanno portato a un incremento esplosivo del debito del paese asiatico. In percentuale sul Pil (Prodotto interno lordo), negli ultimi cinque anni il debito è cresciuto di almeno 70 punti percentuali. Si tratta di un aumento senza precedenti e che sta causando una notevole pressione sul sistema finanziario, con una quota considerevole di finanziamenti che tendono a non essere rimborsati”.

Segnali preoccupanti sono arrivati anche dall’America latina e sono stati ben riassunti dalle previsioni del Fondo monetario internazionale che nel suo World Economic Outlook, indica una crescita del Pil della regione del 3,7% per la fine del 2013. La crescita economica resta al di sotto della media degli ultimi dieci anni. Secondo la Banca interamericana di sviluppo (Idb), intanto, l’obiettivo principale della comunità internazionale, dopo il superamento degli effetti della crisi globale, sarà la crescita potenziale dell’America latina e dei Caraibi. Secondo la Idb, intanto, i singoli stati dovranno adottare delle manovre economiche consone alle proprie esigenze e risorse, senza considerare soluzioni miracolose. Uno scenario che renderà la ripresa eterogenea.  

I paesi della parte centrale ed est del Vecchio continente sono sotto pressione fin da primavera, da quando cioè la Federal Reserve ha parlato di ridurre le iniezioni di liquidità spingendo gli investitori a spostarsi per andare in Usa. Quando poi a settembre la Banca centrale americana ha deciso di andare avanti con il programma di aiuti all’economia qualche investitore è tornato. Ma la maggior parte è stata spaventata dalle prospettive di crescita dell’est Europa che, nel frattempo, sono peggiorate. Secondo le stime dell’Fmi, il Pil della zona emergente del Vecchio continente l’anno scorso dovrebbe essere cresciuto dell’1,7% che potrebbe diventare il 2,7% nel 2014. L’andamento del 2013 è stato più debole a causa soprattutto della situazione di Russia e Polonia. I due paesi hanno contribuito a dare una spinta a tutta la regione nel corso della crisi del 2007-2009 grazie soprattutto ai consumi interni. Ma ora anche questo elemento è venuto a mancare. Il risultato è che la regione è in una posizione delicata. Soprattutto se dovessero riemergere segnali di un rallentamento dell’Europa occidentale, il mercato di riferimento per le aziende di quella regione. Un andamento deludente di Eurolandia non farebbe altro che peggiorare il calo della produzione delle fabbriche dell’est. 

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Info autore

Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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